Nel corteggiamento in chat il primo disastro digitale

Affinché una sequenza di elementi si possa considerare frase, in particolare sul web, deve rispettare una serie di condizioni: La lunghezza e la composizione del discorso, specialmente attraverso una chat, infatti, possono trarre in inganno

Per quasi tutte le nostre scoperte siamo debitori

alle nostre violenze, all’esacerbarsi del nostro squilibrio (…)

Non c’è opera che non si ritorca contro l’autore: il poema annienterà

il poeta, il sistema il filosofo, l’avvenimento l’uomo d’azione

 

E. M. Cioran, La tentazione di esistere

“Sarebbe interessante che tu prestassi molta attenzione alle mie parole perché potrebbe nascere una splendida intesa tra di noi”. Un incipit del genere, di primo acchito, appare disadatto allo scopo per il quale è composto: a dispetto delle virgolette, che potrebbero sospendere il giudizio, la richiesta di attenzione è troppo spiccia, irrispettosa della logica e, di conseguenza, priva delle necessarie e convincenti premesse. Tuttavia, facendo appello alla pazienza del lettore, per il momento, lo abbandoniamo o, diversamente, lasciamo che occupi un posto qualsiasi tra i nostri pensieri, confidando che, durante il processo di ‘macerazione linguistica’ – ci si conceda la metafora! –, avvenga la separazione dei costituenti.

Nel 2016, l’ACM (Association for Computing Machinery) assegnò il premio Turing, una specie di Nobel per l’informatica, a Tim Berners-Lee, un informatico britannico, laureato in fisica e inventore, assieme a Robert Cailliau, del World Wide Web. Insomma, in parole povere, si tratta dell’uomo che ci permette di navigare e di farlo in un certo modo. Tra i numerosi e ormai inarrivabili meriti, il ‘signor Web’ ha anche quello di avere coniato l’espressione “web semantico”, che, posta così semplicemente, potrebbe farci pensare a un maneggevole ed elementare contenitore di significati. Nella sostanza, invece, la geniale intuizione costituisce il senso precipuo di tutta la nostra esperienza digitale: i documenti che noi pubblichiamo o leggiamo sono riccamente strutturati in una serie di informazioni e metadati mediante cui s’instaura una specie di relazione virtuosa e feconda tra uomo e macchina. Se, quando inseriamo la cosiddetta parola chiave in un motore di ricerca, otteniamo dei risultati pertinenti, ciò è possibile proprio grazie alla struttura semantica. Dieci anni fa, molto probabilmente, nell’interpretare il web da utenti comuni, ci convincevamo presto che il nostro fosse un ruolo passivo o che l’uso corretto della lingua fosse secondario o marginale. Oggi, è bene sapere che, tanto più saremo accurati nella ricerca o nella redazione di un documento, quanto più soddisfacente sarà l’esito. Il metadato, infatti, nel buon nome della propria origine greco-latina (da μετά-, metà-, prep. gr. e datum, sost. neutro lat.)  è, letteralmente, un dato al di sopra (o oltre) un altro dato. In altri termini, il metadato indica una combinazione di dati e significati. La traduzione comune, “dato per mezzo di un altro” (lo si legge su Wikipedia), è sbagliata. Ecco un esempio col quale dimostriamo l’errore della traduzione volgare: se diciamo “metalinguaggio”, il prefissoide “metà-” ci serve per indicare la riflessione in merito al linguaggio, cioè al di sopra del linguaggio, e non per mezzo del linguaggio.

L’itinerario che stiamo percorrendo, quello della grammatica sostenibile, quindi, si fa sempre più tortuoso e, nello stesso tempo, affascinante e, soprattutto, ci impone lo studio di una vera e propria linguistica digitale. Se l’argomento appena delineato è quello della combinazione dei dati, allora l’oggetto del summenzionato studio dev’essere costituito – improrogabilmente – dalla frase quale unità funzionale della comunicazione ed è subito evidente che il nostro primo dovere consiste nel dire che cos’è. In altri termini, quali sono le condizioni da rispettare affinché una sequenza di elementi si possa considerare frase, in specie sul web, dove, com’è noto, ricorriamo spesso a segni e simboli d’ogni genere e specie con forte valore olofrastico?

Una prima considerazione potrebbe provenire dagli anni trascorsi sui banchi delle scuole dell’obbligo, dove si presume ci abbiano insegnato l’importanza del predicato verbale. Potremmo quindi definire la predicazione come primo requisito d’una frase. In una frase, in linea di massima, è necessario che si predichi qualcosa intorno a qualcos’altro. In realtà, questa definizione, pur essendo corretta, è inidonea o incompleta, giacché, alcune frasi, pur non possedendo un predicato, sono dotate di senso compiuto. “Che bella giornata!”: nessuno può contestarne l’efficacia. Frasi nominali, forme ellittiche et similia, pur mancando di predicato verbale, ci consentono comunque di predicare. Sarebbe opportuno allora riformulare la definizione dicendo che una frase è efficace e, per ciò stesso, dotata di senso compiuto solo in quanto, con essa, si attribuiscano proprietà e qualità a qualcuno o qualcosa e si creino relazioni. Tale definizione ci permette di riprendere agevolmente anche il concetto di metadato, che è un’informazione basata sulle proprietà di certi dati e in grado di esprimere una relazione tra di essi. Prima di andare avanti, abbiamo il dovere di fare una distinzione di metodo: frase e proposizione non sono esattamente la stessa cosa, come di solito si pensa. La proposizione, infatti, è una frase semplice e potrebbe corrispondere, grosso modo, all’ordine tipologico della lingua italiana SVO (Soggetto Verbo Oggetto), laddove la frase può essere data da un insieme di proposizioni e, di conseguenza, essere oggetto d’indagine dell’ipotassi (subordinazione), nel caso del periodo complesso, e della paratassi (coordinazione) nel caso del periodo composto.

Adesso, sulla base di queste acquisizioni, possiamo tornare a occuparci dell’incipit: basta sforzarsi di considerarlo come un primo ‘reperto’ di linguistica digitale. A ben vedere, possiamo anche riqualificarlo come uno dei documenti più diffusi del web delle relazioni: in realtà, un web senza relazioni è ormai impensabile. Ci proponiamo e chiediamo un altro piccolo sforzo: immaginiamo cioè che la frase dell’incipit sia scritta in una chat in un tentativo di corteggiamento. Sì, è vero: è un’anomalia; sembra differire dall’approccio classico. Noi precisiamo che essa differisce solo per grado, non già per natura. L’abbiamo ampliata e abbellita, ma, nella sostanza, prendendo in esame gli anodini “ciao”, “che fai di bello?”, “come stai?” (quest’ultimo, rivolto a una persona che non si conosce, è pure schizofreniforme) et cetera, ci rendiamo conto che cambia solo la struttura sintattica. Il fatto è che chi ha il coraggio di corteggiare una donna con un “che fai di bello?”, di certo, non è in grado di produrre una struttura complessa e pensare per ipotassi. A ogni modo, ci accingiamo a dimostrare che gli approcci in questione, in termini di efficacia semantica e per iperbole, restano molto al di sotto del metadato e, probabilmente, sono privi di un minimo valore relazionale.

Il periodo, tutto sommato, è ben formato e, come si suol dire, è grammaticalmente corretto. Si apre con un condizionale; il che non è affatto irrilevante, anzi risulta decisivo: devono verificarsi alcune determinanti condizioni affinché l’interesse richiesto dal corteggiatore maturi nel destinatario. La strada è tutta in salita, per così dire. Un condizionale in posizione enfatica (all’inizio della proposizione) e, per di più, all’interno di una frase con soggetto nullo (sottinteso, fittizio, comecchessia…) rende molto difficile l’impresa. Se, infatti, isoliamo dal resto del periodo la proposizione “sarebbe interessante”, ci rendiamo conto immediatamente che la struttura in questione, quantunque lecita, è manchevole di parecchie informazioni. Essa, in pratica, è sottesa da un soggetto impersonale, cosicché non possiamo riconoscere un agente, e si esplicita nell’area semantica di un aggettivo, interessante, molto in voga, allo stesso modo di importante, una specie di tappabuchi, la cui area semantica è vaga, debole, indeterminata o, addirittura, elusiva. Consultando il GDLI, leggiamo che “interessante”, oltre a essere il participio presente di “interessare”, è ciò “che desta interesse, che si impone all’attenzione, che suscita curiosità”. La lettura dell’opera del Battaglia ci fa riscontrare un altro problema: la ridondanza semantica. Se “interessante” è qualcosa che s’impone all’attenzione, allora chiedere molta attenzione potrebbe causare un abuso o, per lo meno, un eccesso. Tuttavia, saremmo troppo pignoli; ed è naturale che il mittente non possa essere così meticoloso nella scelta dei termini. Nello stesso tempo, non ci si può, comunque, sottrarre a un dovere: trovare l’oggetto dell’interesse, raccontare all’altro il “che cos’è” dell’interesse. “Interessante”, infatti, è anche il nome del predicato, l’elemento che dovrebbe dare senso alla copula “sarebbe”: in latino, copŭla vuol dire unione, legame. Dov’è l’oggetto? Soprattutto: dov’è il legame? Che cosa dovrebbe catturare l’attenzione della corteggiata?

Con uno sguardo più ampio del precedente, notiamo che la frase successiva è una subordinata soggettiva; essa costituisce cioè il soggetto della principale – o reggente –. Ci dovremmo aspettare, pertanto, che la soggettiva riempisse il vuoto originario e, in parole povere, ci dicesse qualcosa sulle intenzioni del mittente. Se il soggetto della proposizione principale è nella subordinata, ciò implica che l’autonomia della principale sia parziale. Perché la ricevente destinataria dovrebbe prestargli molta attenzione? Paradossalmente, il tu della subordinata genera una sorta di violenza verbale, un pericolo linguistico bell’e buono. L’autore della frase, infatti, oltre a non dire alcunché di valido e a non connotare il tema dell’interesse, non si assume mai delle responsabilità linguistiche, non si espone, non accetta il rischio che la relazione comporta. La reggente è impersonale, mentre, nella subordinata, chi deve agire, se vuole farlo, è la corteggiata; la qual cosa è inconcepibile, per quanto molto frequente. Il ‘lui’ della relazione è inesistente, invisibile, amorfo. Se dovessimo dare qualche consiglio in merito, diremmo: – Attenzione a chi si presenta in questo modo! -.

Non bisogna farsi ingannare dall’apparente eleganza del costrutto. La consecutio temporum è rispettata e così pure, in generale, l’intera morfosintassi, ma il fatto che una frase è regolare nella forma non è una garanzia di qualità e validità dei contenuti.

Se noi dobbiamo prestare molta attenzione, dobbiamo farlo sulla base di una buona motivazione: la componente estetico-esornativa non può essere sufficiente. Tra le altre cose, l’equilibrio temporale che traiamo dalla consecutio temporum non è altro che un ulteriore rinvio d’un significato autentico: “sarebbe interessante che tu prestassi molta attenzione alle mie parole” vuol dire non già che qualcosa è davvero interessante, bensì che potrebbe diventare tale, se e solo se (…). Qui, tuttavia, l’ipotesi è taciuta del tutto. E inoltre non ci è dato sapere quali siano le sue parole. Marco Antonio, nel Giulio Cesare di Shakespeare, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, dopo aver detto all’uditorio “prestatemi le vostre orecchie!”, introduce immediatamente l’oggetto della richiesta: “sono venuto a seppellire Cesare, non a tesserne l’elogio”. È mai possibile che un richiedente non ‘mostri’ l’oggetto della richiesta?

La lunghezza e la composizione del discorso, specialmente attraverso una chat, come abbiamo già detto, possono trarre in inganno. È opportuno sapere che la lunghezza che siamo in grado di produrre è dovuta a una precisa caratteristica del linguaggio: la ricorsività. I parlanti, in pratica, sono tutti in grado di produrre una quantità infinita di combinazioni, servendosi di un set finito di elementi. Laura è bella; [Io penso (che Laura sia bella); {Egli ritiene [che io pensi (che Laura sia bella)]}; e così via. Di là dall’abilità del parlante o, nello specifico, dello scrivente, l’eccessiva lunghezza disperde l’attenzione del lettore e ne indebolisce pure la capacità di comprensione. Non a caso, il ‘suggeritore’ o ‘assitente’ di wordpress, quando eccediamo, ci avverte che la leggibilità è inadeguata, mancano le parole chiave, i collegamenti ipertestuali sono scarsi et cetera. Figuriamoci un tentativo di corteggiamento siffatto! Per converso, non si pensi di potersela cavare con “sei interessante”, “sei bellissima” et similia! Il discorso non cambierebbe. Noi abbiamo ampliato la frase, rendendola un po’ artificiosa, al solo scopo di offrire un’analisi completa di alcuni costituenti, ma “sei interessante” non è altro che la proiezione minima del nostro incipit.

Rebus sic stantibus, giungiamo alla parte conclusiva del periodo: “perché potrebbe nascere una splendida intesa tra di noi”. Il verbo “giungere” non è frutto d’una scelta casuale. A questo punto, ossia arrivati qui, in verità, dovremmo avere chiari i motivi della richiesta; ed è gravissimo che siano del tutto assenti. Tra le altre cose, tralasciando il solito ricorso, ormai parossistico, al condizionale, troviamo un sostantivo ‘preoccupante’: “intesa”. L’intesa tra due persone non è cosa da poco; non è affatto ‘condizionale’, non può esserlo. Ciò che, tuttavia, ci preoccupa ancora di più è il fatto che questa intesa sia affidata a un secondo livello di subordinazione. La subordinata introdotta da “perché” è causale e dovrebbe servirci a chiarire in modo definitivo e inequivocabile le concause dell’interesse, dell’attenzione e della splendida intesa, ma, purtroppo, il suo significato è vincolato al significato della proposizione soggettiva, che, come sappiamo, era ‘asemantica’. In conclusione: un fallimento e, insieme, un pericolo.

Dunque, ogni frase che possa dirsi valida ed efficace, deve possedere elementi rematici e, soprattutto, focali, deve attribuire proprietà e qualità, deve generare relazioni, in assenza dei quali il disastro, se non è posto a priori, è imminente. In “Laura è bella”, “Laura” è il tema, cioè l’elemento attorno al quale si predica qualcosa, mentre “è bella” è il rema, vale a dire la predicazione, l’informazione che diamo, anche se, nelle frasi complesse, la designazione di tema e rema non è così meccanica. Aggiungiamo solo un’avvertenza finale: il sintagma “tra di noi” è un modificatore, noto ai più come complemento obliquo. Ciò che non è noto invece è questo: che si può fare a meno di un modificatore nell’economia di una proposizione, specie in un contesto ben definito. Quindi, in questo caso, “tra di noi” non aggiunge né toglie alcunché ai significati.

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