Slow Journalism, l’importanza di arrivare ultimi

Lo Slow Journalism è un giornalismo buono, veritiero, accurato e selettivo, che "arriva dopo" la notizia e il trending topic, opposto all'overload informativo dell'informazione online e gratuita

Di infodemia forse non si muore, ma in tempi di emergenza sanitaria, gli effetti dell’amplificazione di una mole infinita di notizie da parte social media sono sotto gli occhi di tutti. Ogni 60 secondi vengono pubblicati in rete migliaia di articoli e centinaia di migliaia di post sui social. I contenuti con cui veniamo in contatto, per caso o frutto di ricerca sono comunque di più di quanto il cervello umano sia in grado di processare, tantomeno di ricordare. Il motivo di questo overload informativo si annida anche nei difetti strutturali dell’informazione online, nell’abuso del ruolo del citizen journalism e del cittadino comune come prosumer di notizie in tempo reale. Gli studi sul giornalismo sostenibile incorrono sempre nella difficoltà di rispondere alla domanda “di quanto giornalismo abbiamo davvero bisogno?” senza impantanarsi nel grande dibattito sulla pluralità delle voci.

Sicuramente avremmo meno bisogno di contenuti “acchiappaclick” la cui vita online si esaurisce nel giro di qualche secondo. E se un tempo con i giornali del giorno prima ci si incartava il pesce, oggi con le news online di qualche secondo prima ci si “incarta” la pubblicità. La maggior parte dei siti di informazione online si sostiene economicamente grazie ai banner pubblicitari e alle indicizzazioni di Google e Facebook, gli unici – in fondo – a detenere i dati dei loro lettori. È quello che denunciano Alberto Puliafito e Daniele Nalbone nel libro Slow Journalism. Chi ha ucciso il giornalismo? edito da Fandango nel 2018. La perdita della qualità è il drammatico costo di un’informazione gratuita, come quella a cui siamo ormai abituati. Digital News Report 2020 di Reuters ci dice che in Italia, nell’anno appena trascorso, solo il 10% dei lettori ha pagato per l’informazione online, un dato basso rispetto alla media europea (13%), dimezzato rispetto agli USA (20%).

Dai dati di Pew Research Center scopriamo che negli Stati Uniti la maggior parte degli intervistati, utenti del web, ha difficoltà a distinguere le fonti giornalistiche di prima mano dagli aggregatori che riportano notizie non originali. D’altra parte il processo con cui leggiamo online è una scansione dei titoli più che una lettura, che mira alla condivisione sui social prima che alla comprensione.

Un sistema insostenibile anche dall’interno, come racconta Slow Journalism, nel raccogliere le testimonianze di giornalisti stanchi di un ritmo che non fa bene né alle loro carriere né ai lettori, né tantomeno alla professione. “Sono arrivato a contare 150 contenuti pubblicati in un giorno”, raccontano, “un gioco a perdere tutti, che però tiene in vita un mercato drogato sotto tutti i punti di vista: giornalistico e pubblicitario”. È ormai chiaro che il business model basato esclusivamente sulla pubblicità non fa al caso dell’informazione di qualità, anzi, la sgretola.

Chi va piano va lontano

Dalle esperienze di bulimia informativa sono nati in molti paesi negli ultimi dieci anni dei progetti di giornalismo “lento”, ispirato in parte al fenomeno “slow food” ma declinato nel mondo dell’informazione. Un giornalismo buono, pulito e giusto. Ma anche veritiero, accurato, selettivo. Gli intenti del giornalismo lento sono chiari: ascoltare il lettore ed elaborare dei contenuti che “arrivano dopo”. Dopo la notizia, dopo la polemica, dopo il trending topic, “dopo che la polvere si è depositata” affermano i fondatori di Delayed Gratification, uno degli esperimenti di maggior successo che di recente ha compiuto 10 anni. Gli approfondimenti del giornalismo lento nascono dai dati e da un lavoro di ricerca più possibile completo ed esaustivo, non sensazionalistico, ma ragionato. Non distraggono con banner pubblicitari e pagano i loro collaboratori. Ma soprattutto, si propongono lo scopo di essere “a lunga scadenza”, per poter essere utili anche molto tempo dopo gli avvenimenti: il danese De Correspondent, uno dei primi slow magazine al mondo, ad esempio, è stato costruito intorno al principio che “la verità” può essere costantemente aggiornata, come sostiene il suo fondatore Rob Wijnberg. Niente di davvero nuovo, in realtà: si tratta di uscire dal “dramma tecnologico” e rimescolare gli insegnamenti del reportage di viaggio, dell’inchiesta, della ricerca etnografica servendosi degli strumenti del digitale senza farsene schiavizzare.

Il giornalismo sostenibile è un giornalismo rispettoso degli avvenimenti, delle fonti, delle popolazioni quando lavora sul campo, e che ha un nuovo approccio anche nei confronti dei “competitor”, che coinvolge nelle proprie ricerche, citandoli opportunamente e costruendo infografiche e sondaggi.

Ma perché funzioni sarà necessario ritornare a far pagare l’informazione.

I “nuovi” modelli di business

Delayed Gratification, Tortoise, Pro Publica, Slow News, De Correspondent hanno in comune la formula degli abbonamenti, del crowdfunding e del contributo da parte di membri fondatori. Delayed Gratification ha raggiunto di recente le 10.000 copie cartacee oltre agli abbonamenti sul digitale, Tortoise e The Correspondent (nella sua versione internazionale) devono la loro nascita a una raccolta fondi di successo, rispettivamente di 539.000 sterline e 2 milioni di dollari, su Kickstarter, mentre il giornalismo investigativo di Pro Publica può contare anche sulla vendita a Kindle Singles e diverse sponsorship.

Slow News in Italia ha la sua newsletter dedicata agli abbonati a un prezzo irrisorio: la newsletter a pagamento ha il vantaggio di condividere i propri contenuti solo con gli utenti realmente interessati, mentre spesso molte delle iniziative di Slow Journalism si autofinanziano organizzando seminari, incontri formativi, tavole rotonde, finanziamenti no profit da parte di banche ed enti di beneficenza. I fondatori concordano tutti sul sollievo di svincolarsi finalmente dal cappio dei numeri, dei click, dei KPI, del volume di traffico, dalle metriche degli investitori pubblicitari, dall’ossessione per i dati di Google Analytics. Tutto questo, naturalmente, senza ignorare le piattaforme e i social network, ma facendone un uso meno massiccio, basato sul valore del contenuto più che sulla quantità.

I motivi di un certo successo – fatto di alti e bassi – del giornalismo lento come fenomeno possono trovarsi proprio nella richiesta da parte del pubblico dei lettori di notizie più affidabili: ce lo conferma Reuters, i dati sulla fiducia nei confronti dei canali di informazione hanno subito un crollo dell’11% in Italia solo nell’ultimo anno. L’impatto dell’emergenza sanitaria sull’industria dei media ha confermato la necessità di un cambiamento dei modelli di business già “annusato” dallo slow journalism: i ricavi dalla pubblicità sono crollati del 50% nel 2020 su scala globale; molti giornali hanno dovuto sospendere le copie cartacee (la cui distribuzione era già andata in crisi con il lockdown) e licenziare parte del personale giornalistico.

Se le anomalie del 2020 hanno riportato in cima l’autorevolezza della TV, che diventa il media più apprezzato in tutto il mondo per via delle notizie in tempo reale, hanno anche reso urgente il bisogno di notizie affidabili e suffragate da dati, bilanci, prospettive, proprio del giornalismo indipendente: dall’analisi Reuters appare chiara l’esigenza di un giornalismo il più possibile unbiased.

Che ruolo avrà lo slow journalism in tutto questo? Forse nessuno, sembra dirci l’esperienza di The Corrispondent che ha sospeso le pubblicazioni proprio a gennaio perché non più in grado di sostenere i costi. Nell’annuncio i fondatori spiegano che le persone nel periodo della pandemia sono più interessate alle notizie contingenti (“quando è prevista la mia vaccinazione? Domani la scuola di mio figlio sarà chiusa?”) e questo non è il tipo di giornalismo per cui sono nati. Importante notare però, che la versione originaria, olandese, è ancora attiva, a testimonianza che una delle caratteristiche del giornalismo sostenibile sia proprio l’attenzione al locale, al piccolo, alla storia di nicchia, anche se in questo caso su scala nazionale. Cambiare passo, andare contro la velocità informativa, soprattutto in tempo di emergenza, è davvero così impossibile? Racconta il giornalista Tom Wolfe che quando il New Journalism cominciò a diffondersi nelle polverose redazioni d’America, richiedendo moltissimo tempo sul campo a contatto con i protagonisti della notizia, a volte settimane, i giornalisti si divisero tra i classici reporter e i feature writers con la loro narrativa dettagliata e romanzata. Nessun editore piangeva se succedeva loro qualcosa, “si versavano lacrime solo per i reporter di guerra”. Ma poi da quel nuovo modo di fare cronaca uscì la migliore letteratura. “Nessuno poteva aspettarsi che il giornalismo potesse avere una dimensione estetica”, scrisse Wolfe.

Chissà che oggi, nel tempo del data journalism, non si possa provare ad avere, nei risultati delle 2 milioni di ricerche al minuto che facciamo su Google, anche una dimensione lenta.

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