Tra me e me il digitale

L'avvento di Internet e del digitale ci ha permesso, pur rimanendo nella nostra stanza, di avere accesso al mondo, o almeno alla sua rappresentazione, modificando il rapporto tra noi e la nostra solitudine

“Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa: dal non sapersene restare tranquilli in una stanza.“ (1)

 

Credo valga la pena di partire da questo celebre pensiero di Blaise Pascal per chiedersi che cosa è cambiato nel rapporto tra noi e la nostra solitudine da quando il digitale è entrato nelle nostre stanze. 

Tutto, verrebbe impulsivamente da rispondere, visto che con l’avvento di Internet prima e del digitale poi, noi, pur rimanendo più o meno tranquilli nella nostra stanza, possiamo avere accesso al mondo intero o almeno alla rappresentazione dello stesso. A seconda che vogliamo sottolineare il ruolo attivo o passivo che abbiamo nel percorrere tale via di comunicazione possiamo a piacimento sostenere di essere noi a recarci dalla nostra stanza, tramite la rete, verso i luoghi di conoscenza, bellezza, utilità o piacere della stessa che più ci aggradano. Oppure possiamo illuderci che siano gli stessi oggetti dei nostri desideri o almeno quelli che le piattaforme, cui abbiamo ormai delegato l’interfaccia con la rete, ritengono per noi tali, a venire a noi. Tanto nella versione attiva che in quella passiva sfuggiamo, tramite il digitale, alla condizione di solitudine che la pascaliana stanza ci imponeva e ci ritroviamo invece nella condizione del re descritto da Pascal, “attorniato da gente che non pensa ad altro che a distrarlo”. Anziché però tenere a corte cortigiani/e, attori/attrici, comici e lacchè, come ai tempi del re Sole abbiamo accanto a noi solo macchine pascaline molto più evolute di quella calcolatrice elaborata da Pascal. Tali macchine, la rete che le collega e il sistema che ne scaturisce, oltre a facilitare il nostro lavoro, la nostra conoscenza e il nostro benessere, ci intrattengono e distraggono nel nostro privato come facevano “ il gioco, la conversazione con le donne,  – anche Pascal doveva aver capito che a parlare con gli uomini per lo più ci si annoia – la guerra, gli alti uffici” ai tempi di Pascal. L’immagine del re o meglio di ciascuno di noi divenuto re del proprio personale divertissment si confà d’altro canto perfettamente alla società narcisistica in cui di volta in volta ci compiaciamo o ci vergogniamo di vivere, nella quale il soddisfacimento dei nostri desideri non sembra più frenato dall’edipico senso di colpa ma solo dal senso di insufficienza e dalla vergogna di non avere quanto desidereremmo e la società ci invita avere.

Nel frattempo tuttavia l’organizzazione sociale in cui quest’intrattenimento privato si realizza è, per fortuna, profondamente cambiata dai tempi di Pascal. Se da un lato ognuno di noi è narcisisticamente divenuto il re del proprio privato divertissement, il potere assoluto del re è stato bandito dalla nostra società che è diventata democratica e (più) libera. Le attuali tensioni geopolitiche, i processi di strisciante trasformazione di alcuni stati in dittature mascherate e il recente approfondimento delle diseguaglianze sociali dopo decenni di efficace lotta alle stesse dimostrano d‘altro canto quanto i processi di democratizzazione e di progresso sociale siano tutt’altro che scontati e irreversibili. 

Ma anche la stanza si è profondamente trasformata divenendo, come ci ha insegnato  Weinberger, comune e intelligente, Internet appunto, in cui la conoscenza viene condivisa, i problemi e le loro possibili soluzioni apertamente e aspramente discusse – anche se raramente con sobria eleganza – i risultati delle nuove acquisizioni sono messi a disposizione di tutti/e. Proviamo per un momento ad immaginarci come ciascuno di noi si sarebbe sentito nella sua stanza se si fosse trovato alle prese con la paura del COVID-19 per sé stesso o per un suo familiare e non avesse potuto scambiare con gli altri informazioni, emozioni, azioni, tentativi di soluzione tramite Internet. Lo scenario avrebbe presto potuto diventare quello infernale e autoritario descritto da Saramago nel suo romanzo Cecità nel quale l’improvvisa cecità di origine ignota che colpisce una parte della popolazione porta alla repressione, all’autoritarismo, al degrado morale e al prevalere degli impulsi più arbitrari e aggressivi. Se oggi possiamo guardare con un po’ di ottimismo al futuro è perché la condivisione digitale delle conoscenze, delle ricerche e delle misure di cura e prevenzione e la cooperazione internazionale per quanto monca e zoppa hanno condotto in meno di un anno alla scoperta e alla somministrazione di un efficace vaccino. D’altro canto abbiamo amaramente dovuto apprendere nel frattempo che la stanza tanto decantata da Weinberger non è poi così comune e nemmeno sempre così intelligente. È afflitta – ma chi l’avrebbe mai detto? – dalle stesse distorsioni comunicative, emozionali e cognitive di coloro che l’hanno creata, affetta dalle stesse intolleranze, dagli stessi narcisismi, moti di invidia e odio che appestano l’offline. Tanto che l’ottimistico saggio di Weinberger, edito nel non lontanissimo 2012 e celebrato come un libro destinato a lasciare il segno sembra essere già finito un po’ in ombra. 

Dopo questa breve panoramica sui cambiamenti dei nostri strumenti, della stanza e dell’ambiente esterno torniamo ora alla solitudine con cui Pascal invitava a confrontarci. Solitudine è in realtà in italiano un termine ambivalente che indica tanto “la condizione, lo stato di chi è solo, come situazione passeggera o duratura” quanto “la condizione di chi vive solo, dal punto di vista materiale, affettivo e sim.” (Treccanie dunque anche la sofferenza del sentirsi solo. In inglese/tedesco l’ambiguità è chiarita dalla coppia alone/loneliness risp. allein sein/Einsamkeit, laddove il primo termine descrive la condizione obiettiva dello stare da solo mentre il secondo esprime la sofferenza del sentirsi solo. La rivoluzione digitale cambia radicalmente la condizione dello stare solo e dunque il suo senso. Se mi trovo nella condizione di essere, stare da solo, posso bypassare questo stato grazie a Internet e alla trasformazione digitale della società. Posso lavorare da remoto, connettermi con le persone con le quali desidero comunicare,  apprendere le informazioni di cui necessito, accedere a una conoscenza di fatto illimitata, condividere pensieri, emozioni, intenti, progetti in una sorta di connessione senza fine. Non credo che potremo ringraziare mai a sufficienza Internet per questo. Anche alcune condizioni di solitudine sofferta possono essere quanto meno alleviate dalla rivoluzione digitale. Le preoccupazioni e le ansie personali o per la salute o la sorte di familiari o amici/amiche trovano sollievo e conforto se possiamo condividerle con quelle persone che si trovano nelle stesse ambasce ma a migliaia di km di distanza. Anche quando ci sentiamo impauriti e impotenti di fronte a catastrofi di vario tipo, possiamo trovare sostegno e conforto dalla condivisione delle nostre sofferenze resa possibile dalla tecnologia. La rivoluzione digitale può – nel senso che ne ha le capacità – aiutarci anche a sconfiggere alcune delle piaghe, quali l‘ignoranza e la povertà che Pascal riteneva invincibili al pari della morte: «Gli uomini, non avendo potuto sanare la morte, la miseria, l’ignoranza, per rendersi felici hanno escogitato di non pensarci». 

Di fronte però all‘”infelicità naturale della nostra condizione debole e mortale […] – prosegue Pascal – nulla ci può consolare allorquando la consideriamo da vicino». Nemmeno il digitale. Esso si aggiunge solo con poderosa capacità tecnologica e pervasività psicologica agli altri svariati mezzi che il genere umano ha già individuato per non pensare alla nostra “condizione debole e mortale” e fuggire da noi stessi. Da questo punto di vista il digitale è un efficacissimo divertissement, che si aggiunge e sostituisce a tanti altri, il denaro, il sesso, gli impieghi, il gioco, la caccia, addirittura la guerra. Pascal sa, e noi con lui, che in essi, e anche nel digitale così inteso, come distrazione, “non si trova realmente la felicità”. Ciò che possiamo ottenere, attraverso il divertissement, è non pensare alla condizione cui siamo condannati. Distrarsi: «questo è tutto ciò che gli uomini hanno saputo inventare per rendersi felici». “Credono di cercare sinceramente la quiete, mentre in realtà cercano soltanto l’agitazione. “Da qui deriva che gli uomini amano tutto il chiasso e il trambusto” e che “è il più grande motivo di felicità nella condizione dei re il fatto che si cerca senza sosta di distrarli e di procurare loro ogni sorta di piacere” per impedirgli “di pensare a se stesso. Infatti, per re che sia, è infelice se vi pensa”.

Anche noi, re digitali, continuiamo a essere tristi se pensiamo a noi stessi. È tuttavia da questa (ontologica) tristezza, dalla quale neanche il digitale ci può liberare, che nasce la nostra riflessione. “Il pensiero è rigorosamente inseparabile da una melanconia profonda, indistruttibile” […] L’esistenza umana, la vita dell‘intelletto, – scrive Steiner, chiosando Schelling – significa un’esperienza di questa melanconia e la capacità vitale di superarla”. 

 

 

 

1)Dario Antiseri, Come leggere Pascal, Tascabili Bompiani, 2005

2) George Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, Garzanti, 2007

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