Cosa pensano gli italiani di smart working, piattaforme digitali e, più in generale, del futuro del lavoro, e degli impatti che tutto ciò può avere sulla sostenibilità? È questa la domanda dalla quale prende le mosse la nuova ricerca “Smart Working: la sfida del digitale” realizzata dalla Fondazione per la Sostenibilità Digitale, presentata lo scorso giovedì 19 settembre, e parte del percorso di ricerca basato sull’indice DiSI che, quest’anno, mostra anche le differenze esistenti nelle percezioni dei residenti dei grandi e dei piccoli centri del nostro Paese.
“Flessibilità, autonomia, responsabilizzazione, orientamento ai risultati è la filosofia che sottende allo smart working. Una vera rivoluzione culturale che scardina consuetudini e approcci tradizionali fornendo ai lavoratori flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”, ha spiegato Stefano Epifani, Presidente della Fondazione per la Sostenibilità Digitale. “In questo nuovo contesto, la tecnologia gioca un ruolo estremamente importante. Smart Working e Digital Transformation si abilitano infatti vicendevolmente poiché se da una parte lo Smart Working ha bisogno delle tecnologie per concretizzarsi, dall’altra è esso stesso un’importante leva verso la rivoluzione di senso che porta con sé la tecnologia digitale. E tuttavia, la tecnologia e lo Smart Working non devono diventare strumenti di potenziale ghettizzazione, ma risorse per il lavoratore e per l’azienda”.
Il pomeriggio è stato aperto dai saluti istituzionali della Senatrice Susanna Camusso e dell’Onorevole Enzo Amich, che hanno sottolineato l’importanza dello smart working – non soltanto nel periodo pandemico – e i necessari accorgimenti da realizzare per renderlo una realtà strutturata nel nostro Paese. “Lo smart working è uno strumento nato con la pandemia e, finita l’emergenza, il governo ha deciso di mantenerlo per i lavoratori fragili e superfragili, demandando ai datori di lavoro la facoltà di decidere caso per caso, in base a criteri del lavoro specifico, sia nel pubblico che nel privato”, ha spiegato l’Onorevole Enzo Amich. “Oggi, dunque, lo smart working non viene più considerato uno strumento di garanzia per rispettare le condizioni di sicurezza e salute del dipendente, ma un punto di conciliazione tra la vita privata e quella professionale del lavoratore”.
“I risultati dello studio mostrano come i lavoratori e le lavoratrici siano stati contenti di questa esperienza vissuta in particolare durante la pandemia, e lo sono stati per motivi che riguardano, prima ancora che il lavoro, la loro vita individuale”, ha commentato la Senatrice Susanna Camusso. “C’è però da sottolineare che, in realtà, non abbiamo avuto una reale esperienza di smart working, quanto piuttosto di ‘trasferimento digitale’ dei lavoratori nelle proprie case, con una struttura del lavoro che ha continuato ad essere profondamente gerarchica. Infatti, ancora oggi, vediamo come la principale preoccupazione delle organizzazioni nell’adozione di questa modalità lavorativa sia il fatto di non avere abbastanza controllo, e questo è il segnale più evidente che non si sta parlando di smart working, ovverosia di una tipologia di organizzazione del lavoro fondata sugli obiettivi rispetto ai quali le persone possono programmare le proprie attività. È molto importante, quindi, destrutturare questa convinzione che la produttività e la qualità del lavoro siano legati a un controllo sistematico, che influisce negativamente sul lavoro e sulla responsabilità delle persone”.
È un cambiamento culturale, quindi, ancor prima che tecnologico, quello da compiere nelle realtà italiane per adeguarsi ad un nuovo modello “smart” del lavoro. “Quello della cultura è il punto che ritengo più importante, insieme a quello della fiducia che deve esserci tra azienda e lavoratore”, ha spiegato Luciano Guglielmi, Direttore del Comitato di Indirizzo della Fondazione per la Sostenibilità Digitale. “In questo senso, per andare verso un’organizzazione del lavoro per obiettivi, più che da formare i lavoratori sono da formare i capi. È una strada fondamentale da percorrere, perché va presa coscienza che lo smart working è oggi una realtà, e lo sarà sempre di più”.
Lo Smart Working tra grandi e piccoli centri
A realizzare un quadro dello stato dell’arte in Italia – tanto a livello privato quanto a livello pubblico – dello smart working è Massimo Fedeli, Direttore Centrale per le tecnologie informatiche di Istat, mostrando come, al netto delle discussioni sui suoi effetti, questo strumento fatichi ancora a diffondersi nel nostro Paese. “Come Istat abbiamo un’indagine annuale, realizzata sulle aziende e la pubblica amministrazione italiana, che tratta anche del lavoro svolto in modalità agile. Uno studio, peraltro, realizzato con domande poste in modo standardizzato a livello europeo, e che rende quindi conto del posizionamento dell’Italia rispetto agli altri Paesi. Dal rapporto emerge che il tasso d’adozione in Italia ci pone al ventunesimo posto, con un dato di utilizzo di questa modalità di lavoro che, nonostante vari da comparto a comparto, è in media del 12% dei lavoratori. Quanto alla pubblica amministrazione, invece, siamo ad oggi al 13% dei lavoratori e, per questo basso livello di adozione, le motivazioni possono essere molte: ad esempio, possono esserci ancora dei vincoli dal punto di vista giuridico per cui nella PA si fatica a fare questo cambio di passo verso il riconoscimento anche del lavoro non in presenza. Ciò, infatti, significherebbe cambiare l’approccio nella valutazione delle performance dei dipendenti pubblici, realizzato con criteri ancora molto spesso legati alla presenza. Ecco, la strada da percorrere è dunque quella verso un nuovo approccio, più improntato sui risultati”.
Passando ai dati presentati dalla Fondazione, la ricerca evidenzia come, nel complesso, siano gli abitanti dei grandi centri a essere più convinti dei benefici dello smart working. Non tanto in termini di aumento della produttività – ampiamente riconosciuta sia nei contesti più piccoli (75%) che in quelli più grandi (74%) – quanto soprattutto rispetto ad altri temi più direttamente collegati alla sostenibilità. Più nello specifico, mentre a ritenere che il lavoro a distanza favorisca la parità di genere è il 21% di coloro che abitano nei grandi centri, questa percentuale scende al 13% nei centri più piccoli. Sui dati relativi al tema del lavoro femminile, nel contesto dello smart working, è intervenuta Lara Lazzeroni, Professoressa Associata di Diritto del Lavoro all’Università di Siena: “I risultati, sul tema del lavoro femminile, mostrano un’apparente anomalia. Infatti, sebbene il 72% degli intervistati consideri il lavoro da remoto un possibile vantaggio, allo stesso tempo il 55% degli stessi, quando la domanda è posta diversamente, lo ritiene una potenziale fonte di svantaggi. Credo che ciò rispecchi i timori che il genere femminile ha sempre avuto quando si tratta di eseguire una prestazione lontana dal luogo di lavoro. Timori che il genere femminile ha già sperimentato negli anni ’60-’70, quando il sistema di misurazione della prestazione a domicilio delle lavoranti, prevalentemente donne, portava a degli svantaggi economici e nello sviluppo della carriera. Ecco, questo è un solo in parte un retroterra culturale che ci portiamo ancora dietro: infatti, l’idea che chi lavora a distanza è meno produttivo accompagna ancora buona parte di quell’imprenditoria non illuminata con la quale a volte, ancora oggi, ci confrontiamo”.
Analogamente, sebbene con un minore scarto, è il 79% degli intervistati residenti nei grandi centri a sostenere che il lavoro a distanza migliori l’equilibrio tra tempo di vita e tempo di lavoro (work-life balance), contro il 74% rilevato nei piccoli centri. Quello del migliore bilanciamento tra la sfera lavorativa e quella privata è uno dei temi maggiormente discussi quando si parla di smart working, e dal quale, come testimoniato dall’esperienza di Gianluca Mazzini, Direttore Generale di Lepida, tanto il lavoratore quanto l’azienda può ottenere diversi benefici. “In Lepida, già prima della pandemia, abbiamo introdotto fortemente lo smart working attraverso accordi individuali, introducendo alcuni elementi importanti: in primo luogo un orario assolutamente flessibile e, in secondo luogo, un monitoraggio basato sugli obiettivi e sulle commesse. Oggi, al termine dell’emergenza, abbiamo un’adesione allo smart working dell’80%, considerando il restante 20% del personale che, per le mansioni svolte, difficilmente può adottarlo. Ciò che è interessante notare è che, nelle analisi che abbiamo svolto per comprendere il funzionamento di questo strumento, la percezione è stata quella di un aumento della produttività, e c’è stata inoltre una maggiore serenità nell’affrontare il lavoro e nel rimanere fedeli all’azienda proprio grazie al fatto di poter lavorare in smart working. Ma non solo: in molti, grazie a questa possibilità, hanno cambiato il proprio domicilio per vivere in piccoli paesini in collina o in montagna, non necessariamente in Emilia-Romagna”.
Inoltre, ad essere convinti che questa modalità lavorativa, riducendo gli spostamenti, rappresenti un vantaggio per l’ambiente sono rispettivamente l’81% e il 76% di coloro che risiedono nei grandi e nei piccoli centri del territorio. E non sembra essere un caso, in questa direzione, che a concordare in misura maggiore con l’affermazione proposta siano soprattutto gli utenti più digitalizzati e attenti alla sostenibilità.
Il futuro è nel mix?
La distanza esistente nelle opinioni dei cittadini residenti nei diversi contesti sembra trovare un riscontro anche nei risultati relativi ai livelli di utilizzo di quegli strumenti digitali utili nell’adozione dello smart working.
Infatti, mentre nei grandi centri è il 31% dei cittadini a dichiarare di non conoscere quegli strumenti di collaborazione che facilitano l’organizzazione delle attività per i team di lavoro, questa percentuale sale al 45% nei piccoli centri. Inoltre, se nelle grandi città circa un intervistato su tre afferma di utilizzare regolarmente servizi come le piattaforme per videoconferenze, tale rapporto scende a uno su dieci nei piccoli centri: e, considerando che a non conoscere questo tipo di servizi nelle aree più piccole è il 32% degli intervistati contro il 14% rilevato nei grandi agglomerati urbani, ciò che si evidenzia è la presenza di un vero e proprio gap tecnologico tra le diverse tipologie di contesto.
Ad utilizzare regolarmente siti o app che consentono di organizzare l’accesso agli uffici e agli spazi aziendali è invece una quota residuale della popolazione, pari al 7% nei contesti urbani e del 3% nei centri più piccoli. Strumenti, questi, che possono essere molto utili – soprattutto se integrati alle altre opportunità offerte dalle nuove tecnologie – alle aziende per efficientare diversi aspetti delle proprie sedi fisiche, con impatti positivi dal punto di vista della sostenibilità, ambientale e non solo. “Nella nostra realtà lo smart working è un modello adottato già da molto tempo, e oggi funzioniamo con un modello ibrido che prevede cinque giorni di lavoro in presenza al mese”, ha commentato Roberto Balzerani, Direttore Divisione PA, Energy e Telco & Innovation di Sopra Steria. “Quello che abbiamo notato è che le persone vengono in sede sempre più spesso in modo spontaneo, organizzandosi per essere in ufficio nelle stesse giornate in modo da poter condividere le proprie attività in presenza. In questo nostro modello, inoltre, siamo sempre molto attenti ad integrare importanti aspetti di sostenibilità. In particolare, oltre all’adozione di tutti gli strumenti e le piattaforme digitali di supporto alla collaborazione da remoto, abbiamo implementato dei sistemi di prenotazione delle aree di lavoro per facilitare i lavoratori quando vengono in presenza. Inoltre, stiamo lavorando allo sviluppo di un sistema di Building Management System di integrazione, che consenta di ottimizzare i consumi energetici soprattutto nelle sedi più grandi dove, essendo distribuite su più piani, non sempre la presenza è tale da riempire tutte le aree”.
Al netto di questi risultati, dallo studio emerge un altro elemento di grande importanza: per la maggior parte dei cittadini intervistati, il futuro del lavoro dovrà essere un mix tra lavoro a distanza e lavoro in presenza. Una sorta di lavoro “ibrido” che, così impostato, potrebbe dunque rappresentare una giusta soluzione per bilanciare i potenziali benefici e svantaggi delle nuove modalità lavorative. Un’opinione generale, questa, che come raccontato dagli esperti intervenuti, sembra trovare un riscontro anche in diverse survey condotte internamente da importanti realtà operanti nel nostro Paese. “Sono in PwC dal 2017, e già avevamo una soglia massima di smart working del 40%: dunque, nella nostra azienda, questo approccio al lavoro per obiettivi c’è da sempre, perché già ben prima della pandemia era una realtà sia dal punto di vista organizzativo che tecnologico”, ha raccontato Luciano Martina, Deputy CIO – Transformation Officer di PwC Italia. “D’altra parte abbiamo una popolazione aziendale con un’età media di poco superiore ai trent’anni, e avere un’azienda molto giovane ci porta automaticamente a rispondere alle richieste di determinate modalità di lavoro. Ciò nonostante, dalla nostra Global People Survey annuale, è emerso che la più elevata richiesta non è quella di una modalità full smart, quanto invece di un modello ibrido: un modello che noi abbiamo deciso di adottare, caratterizzato da un mix di libertà e vincoli”.
“Questi risultati rappresentano una importante conferma per quel modello ibrido che, come Teleconsys, abbiamo adottato subito dopo la fine della pandemia”, ha commentato Marco Massenzi, Amministratore Delegato di Teleconsys. “Infatti, al termine dell’emergenza, nel primo anno di applicazione strutturale dello smart working, abbiamo deciso di condurre una survey su 50 dipendenti per indagare quali fossero gli effetti sulla sfera personale, sociale e lavorativa di questa modalità lavorativa, perché per noi è fondamentale trovare un equilibrio tra questi tre aspetti. Ciò che è emerso è stato il forte desiderio dei nostri lavoratori di tornare non completamente, ma almeno parzialmente e su base regolare, negli spazi dell’azienda, proprio per la voglia di partecipare e contribuire attivamente alla vita della stessa e per avere momenti di condivisione e di socializzazione con i colleghi e con il management. Per questo mi trovo totalmente d’accordo con questa modalità ibrida, flessibile, personalizzata e autogestita, con la quale siamo in grado di soddisfare tutte le esigenze: anche e soprattutto quelle della Gen Z, dei giovani che, per un’azienda che come noi fa dell’innovazione il suo principale valore aggiunto, rappresentano un enorme propulsore”.
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