Di Coronavirus, emergenze e sostenibilità digitale

panopticon

In questi giorni abbiamo visto di tutto. Governatori di importanti Regioni italiane che lanciano dirette Facebook armati di mascherina, come se potessero contagiare la webcam. Loro colleghi che sostengono che sia normale veder cinesi per le strade intenti a mangiar topi vivi. Stimati immunologi che forse iniziano a rendersi conto che – in arene mediali qualificate – la scienza tutto sommato è più democratica di quanto vorrebbero far credere, dal momento che alcuni altrettanto stimati colleghi hanno opinioni in netto contrasto con le loro, e non possono essere zittiti al grido dell’ “io so io, e voi non siete un cazzo” tanto caro al Marchese del Grillo.

In tutto questo la schizofrenia organizzativa collettiva fa sì che il Governo entri in contrasto con le Regioni sui protocolli di sicurezza, le Regioni in conflitto tra di loro, il Premier con i medici, il Capo dello Stato con il Premier. E tutti sembrano dare i numeri (letteralmente, visto che ognuno da i suoi) su un’emergenza della quale si fa fatica a capire la portata.

Insomma: un caos nel quale tra la ricerca della photo opportunity più ghiotta e la pubblicazione sul social di turno della frase ad effetto che venga meglio ripresa da giornali e media, che nel frattempo hanno fatto dello sciacallaggio da click-baiting il loro vergognoso mantra, i cittadini – per non saper né leggere né scrivere – fanno l’unica cosa possibile in questo quadro: vanno nel panico. Panico che si traduce in scenari che sembrano presi da B-Movie post apocalittici, e che talvolta sfocia in veri e propri atti di razzismo e discriminazione.

Nel mentre le imprese – cercando di capire come si riprenderanno da uno shock che è costato già oggi qualche decina di miliardi di euro – si attrezzano come possono, spedendo i dipendenti in quarantena e chiedendo loro di lavorare da casa. Con tutte le conseguenze che ciò comporta per quanto riguarda la gestione del rapporto di lavoro. Ecco quindi che l’emergenza genera anche la necessità di ripescare dalla cantina del bilancio sociale le pratiche di telelavoro che – fraintese con un ben più complesso smartworking (ma non è il caso di sottilizzare, per carità: a caval donato…) – diventano oggetto dell’ennesimo decreto volto a regolarizzare una situazione de facto già in essere in questi giorni e sancire, come afferma un ficcante Gianni Dominici, il passaggio “dall’innovazione per decreto all’innovazione per emergenza” (tramite decreto).

Francamente, in quest’emergenza quasi tutti sono riusciti a dare il peggio di loro: giornalisti, governanti, politici, opinion maker di ogni ordine e grado. E tutti hanno dimostrato una cosa che troppo spesso dimentichiamo: la gestione dell’emergenza non può essere organizzata in emergenza.

Il Coronavirus ci ha ricordato come alcuni scenari che molti degli abitanti dei Paesi così detti “sviluppati” pensano riguardino qualcun altro situato in altri quadranti del mondo, in un mondo sempre più connesso rischiano di tornare pericolosamente attuali quando meno ce lo si aspetta. Ed in questo mondo connesso e sempre più piccolo è fondamentale disporre di strumenti comuni e condivisi di interpretazione del reale e di gestione delle policy da adottare in casi di emergenza, così da poter contare su approcci realmente globali. Strumenti di due tipi: di indirizzo politico e sociale e di supporto tecnologico.

  • Per quanto riguarda i primi, inutile dire che, in questo contesto, oltre alle linee guida di enti come l’OMS, particolarmente centrale torna ad essere Agenda 2030, che con i suoi principi delinea obiettivi generali ai quali far riferimenti molto utili in questi casi.
  • Per quanto riguarda i secondi, la tecnologia evidentemente rappresenta uno strumento centrale. Tecnologia che pone molti problemi inediti (qualcuno ha definito quella di COVID-19 la prima “infodemia” della storia, e l’infodemia è figlia della nostra modalità di gestire gli strumenti che la generano, come la Rete), ma offre anche infinite opportunità.

Sostenibilità digitale, quindi, è anche l’utilizzo delle tecnologie come strumenti a supporto e sostegno dei principi dettati da Agenda 2030 come linea guida internazionale e condivisa per comprendere come affrontare situazioni come questa nella quale si stanno trovando l’Italia ed il mondo con il Coronavirus.

È positivo, certo, che si parli oggi di smartworking (che proprio smartworking non è). Ma se avessimo fatto dei principi di Agenda 2030 qualcosa di più di simpatici cartelloni colorati da appendere dietro le scrivanie degli uffici dedicati alla Corporate Social Responsibility delle aziende, ci saremmo accorti prima che l’obiettivo 8 (incentivare un lavoro dignitoso per tutti) solleva con forza il tema delle modalità di gestione del lavoro. E che leggerlo in combinazione con l’obiettivo 3 (relativo a salute e benessere), fa emergere chiaramente la necessità di costruire modelli technology based di gestione del lavoro in grado di supportare approcci nuovi, utili in casi come quello che stiamo vivendo.

E se ce ne fossimo occupati per tempo (come provano a fare parti rare e letteralmente rivoluzionarie del sindacato: basta guardare al lavoro di persone come Marco Bentivogli) non saremmo stati costretti a gestite la questione “in emergenza” (che è un ottimo viatico per gestirla male ed avere la scusa per dire che non si poteva fare diversamente). La avremmo affrontata, invece, come parte di un’agenda politica orientata ad affrontare temi seri, e come parte di strategie aziendali orientate alla sostenibilità che vadano oltre le scenografiche ed ormai onnipresenti borraccette con le quali molte aziende pensano di poter archiviare il problema del bilancio di sostenibilità.

Lo stesso obiettivo 3, peraltro, pone il tema della gestione delle emergenze sanitarie e del rischio di contagio. Non è certo compito di Agenda 2030 specificare come ciò debba essere fatto attraverso protocolli specifici (che sono regolati da altri attori), ma uno Stato responsabile, avendo aderito ad Agenda 2030, si dovrebbe esser posto per tempo il problema di come gestire la questione: anche grazie al digitale. E non certo nel momento dell’emergenza. Perché alcune scelte richiedono una riflessione condivisa che non può essere affrontata in pochi giorni e con clima di panico.

Un esempio su tutti? La ricerca del famoso Paziente Zero: il racconto della cronaca ci dice di come siano state effettuate interviste per comprendere i movimenti delle persone e tracciarne le attività. Interviste. Ossia: nell’era dei big data e dell’intelligenza artificiale, nell’epoca del 5g e dell’always-on, siamo andati ad intervistare le persone. Una ad una. Abbiamo la possibilità di tracciare movimenti tramite gli smartphone. Ogni utente ha archiviata nel suo telefono la traccia dei suoi spostamenti. Chiunque ha ogni movimento geo-referenziato. E noi, nel momento di massima allerta, facciamo interviste.

Non sarebbe stato più semplice guardare ai dati conservati negli smartphone? O alle celle telefoniche? Certo. Ma questo pone un problema: quando è lecito usare questi strumenti? E con che metodi? È opportuno che la compagnia telefonica comunichi agli enti preposti i movimenti dei cittadini coinvolti? E se si, di quali? Di tutti o di quelli che sono risultati positivi allo screening?

Sebbene lo scenario possa apparire inquietante, a queste domande non si può rispondere durante un’emergenza, altrimenti il rischio è che si preferisca sempre e comunque la salute pubblica alla privacy non per reale necessità, ma semplicemente per paura. Questi temi devono rappresentare invece argomenti d’agenda, da affrontare con attenzione e discutere seriamente e serenamente, evidenziando opportunità e rischi, capendo cosa si potrebbe guadagnare e cosa di sicuro si perderebbe. Così da poter essere nelle condizioni – durante le emergenze – di disporre delle risposte e definire linee d’azione comuni.

I protocolli sanitari, quelli di sicurezza, le linee guida per la sorveglianza urbana vanno aggiornati tenendo in considerazione le opportunità del digitale, ma anche bilanciandole con la privacy dei cittadini. E per fare tutto ciò diventa imprescindibile la capacità di ragionare di futuro. Diviene fondamentale guardare ad uno schema di diritti e di valori condivisi rispetto ai quali Agenda 2030 è un utile punto di partenza. Lo è nei Paesi meno sviluppati, perché tocca temi cruciali come i diritti di base e la libertà, ma lo è anche nei paesi così detti sviluppati, che troppo spesso tendono a dimenticare che libertà e diritti non sono scontati.

Il concetto di sostenibilità digitale è anche questo: comprendere come il digitale impatti sulla sostenibilità sociale e definire di conseguenza linee d’azione e modelli di policy da discutere e condividere. Altrimenti Agenda 2030 rischia di rimanere solo un libro dei sogni del tutto inutile in queste circostanze, mentre deve disegnare un orizzonte concreto e raggiungibile.

Ma perché lo sia serve un ricorso intelligente alla tecnologia, ed una riflessione profonda sui grandi temi che essa tocca. Serve un approccio orientato, appunto, alla sostenibilità digitale.

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