Pan Am Games e #To2015: l’hashtag che “non si poteva usare”

Immaginiamo di dover spiegare a un marziano che cos’è Internet: senza dubbio, una delle prime cose che gli diremmo è che Internet è soprattutto condivisione. Condivisione di contenuti e spazi prima di tutto, ma anche condivisione di discussioni e idee. Quando un contenuto viene messo sul web, sia esso una foto, un articolo o anche solo una battuta particolarmente sagace, questo contenuto diventa immediatamente disponibile per tutti gli altri utenti, che possono prenderlo, modificarlo, ampliarlo e replicarlo all’infinto in modi più o meno leciti. Sul web si può violare il diritto d’autore, ma difficilmente si può impedire a qualcuno di appropriarsi di un contenuto, anche se questo è protetto da copyright.

Per questo, continueremmo a spiegare al nostro marziano, sul web è pressoché impossibile riuscire a “ingabbiare” un contenuto per controllarlo in ogni suo movimento e decidere chi può “utilizzarlo attivamente” e chi no. Tutto ciò diventa ancora più evidente quando si parla di social media, dove ogni contenuto viene ideato, creato e pubblicato per essere condiviso dagli altri utenti. I “paletti” non solo sono inutili, ma sono anche deleteri: lo scopo di chi comunica sui social media è quello di mettere gli utenti in condizione di accedere ai contenuti e farsene veicolo, amplificando il messaggio.

Un concetto, questo, che a quanto pare è sfuggito a chi si è occupato di gestire la comunicazione online dei Pan Am Games, i Giochi Panamericani che sono, a conti fatti, un’Olimpiade riservata agli atleti del continente americano. Insomma, un evento sportivo di quelli grossi, che coinvolge migliaia di atleti in diverse discipline e, soprattutto, milioni di spettatori che guardano, tifano, commentano e discutono sui social media.

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I Giochi Panamericani si tengono ogni quattro anni, e la città organizzatrice dell’edizione 2015 è la canadese Toronto. Come ogni grande evento che si rispetti, anche i Pan Games 2015 hanno tuto il corredo: sito web, pagine Facebook, account Twitter e un hashtag ufficiale: #To2015.

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Fino a qui, niente di strano: i Pan Am Games sono iniziati il 10 luglio e si concluderanno il 26 luglio dopo due settimane di gare, competizioni e medaglie. Peccato solo che qualcuno, navigando sul sito ufficiale dell’evento, si sia accorto di un piccolo dettaglio: gli organizzatori hanno messo il “trademark” su quasi tutto quello che riguarda l’evento, sito web e hashtag ufficiale compresi. Solo un dettaglio? Non esattamente. Secondo la legislazione canadese, infatti, mettere il trademark su qualcosa significa che questo “qualcosa” non può essere utilizzato se non dopo aver ottenuto l’esplicito consenso da parte dei titolari del marchio. Applicando la legge al caso specifico, significa che tecnicamente nessuno potrebbe linkare il sito dei Pan Am Games 2015 senza aver chiesto prima il permesso. Allo stesso modo non si potrebbe twittare sull’hashtag #To2015™ senza incorrere in una possibile violazione delle condizioni d’uso del marchio, ed essere – almeno in linea teorica – passibili di denuncia da parte degli organizzatori dei Pan Am Games.

Geniale.
Non ci è voluto molto perché la “scoperta” diventasse virale e che tutti cominciassero a parlarne.

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Ora, ci sarebbero da fare alcune precisazioni: come ha spiegato a Metro l’avvocato Scott MacKendrick, le restrizioni sull’uso dei marchi legati ai Pan Am Games 2015 riguardano più che altro le imprese che sfruttano il marchio dei Giochi Panamericani di Toronto per farsi pubblicità. Il problema è che non capita quasi mai che sia un hashtag a essere protetto da un trademark: applicando la legge alla lettera, #To2015 si potrebbe tranquillamente usare mentre si commenta una gara e si fa il tifo per una nazione, mentre è vietato associare questo stesso hashtag a qualsiasi tipo di tweet promozionale che non riguardi i brand correlati dei Pan Am Games 2015 e i suoi sponsor ufficiali.

Il perché di questa scelta è stato spiegato da Christopher Doyle, manager dei diritti commerciali di To2015, che ha sottolineato come l’azione sia volta a proteggere gli interessi dei partner ufficiali dell’evento (al punto che, si legge qui, se si dovesse andare a fare live blogging di una gara qualsiasi con un computer di una marca che non è tra gli sponsor, bisognerebbe coprirne il logo con un pezzo di carta). Doyle, tuttavia, ha assicurato che l’organizzazione dei Giochi «sarà clemente» con, ad esempio, i piccoli esercizi commerciali che «potrebbero commettere qualche sbaglio online». Dice Doyle: «Non penso che saremo particolarmente preoccupati se una è panetteria locale o un negozio di muffin [a usare l’hashtag #To2015 per promuovere i propri prodotti, NdA] e se non stanno facendo qualcosa che possa davvero creare fastidi ai nostri partner»

Uhm. Comunque la si voglia mettere, la situazione non è particolarmente chiara: su Twitter il confine tra discussione e autopromozione è talvolta così labile da essere difficile da riconoscere. E questa presa di posizione sembrerebbe essere a svantaggio non solo degli utenti – che potrebbero semplicemente decidere di non twittare sull’hashtag ufficiale per paura di fare qualcosa di sbagliato e beccarsi una denuncia – ma anche della ricchezza della macro-conversazione intorno a un tema caldo come solo un evento sportivo può essere. Ci ricordiamo tutti quello che successe un anno fa, durante Italia-Uruguay ai mondiali del Brasile, quando Suarez  azzannò la spalla di Chiellini: quello di McDonald’s fu un caso clamoroso di instant marketing, ma a guadagnarne fu anche la visibilità dell’episodio in sé, che generò un traffico pazzesco anche grazie all’intuizione di qualche social media manager.

Nondimeno, l’azione degli organizzatori dei Pan Am Games genera parecchia confusione tra gli utenti: perché una persona dovrebbe preoccuparsi tanto di quello che condivide su un hashtag mentre commenta una gara del suo sport preferito? Chi può utilizzare questo hashtag senza problemi? Le conversazioni sul web sono fatte di immediatezza, di condivisione e di spontaneità: mettere un vincolo legale sull’utilizzo di un hashtag, benché applicabile solo a casi particolari, significa non avere ben chiara la portata di una conversazione su Twitter e quanto traffico può generare. “Tappare la bocca” al web non solo è deleterio ma è anche impossibile: se gli organizzatori di un evento propongono un hashtag che però si rivela “scomodo”, l’azione collettiva del web può semplicemente crearne uno nuovo e “libero” che può surclassare in visibilità e popolarità l’hashtag ufficiale, aggirando tutti i vincoli.

Per questo quello di #To2015 è da considerarsi un “epicfail” particolarmente epico: perché non riconosce in alcun modo il funzionamento di certe dinamiche del web, agendo come un cancello in mezzo a un prato, senza niente attorno. Ovvero, completamente inutile. Ma che è sintomo di una “rigidità” che non può appartenere a chi comunica sul web.

 Lesson Learned: Quando lavori sul web, è necessario fare un passo indietro e cercare di osservare la situazione dalla prospettiva più ampia possibile: sei sicuro che quello che tu vuoi tutelare non ti sia di ostacolo per il successo della tua comunicazione?

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