Alfabeto Open: L come Lock-in (e Pubblica Amministrazione)

“La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta.”
Theodor Adorno

Con il termine “Lock-in” si indica un noto fenomeno secondo cui un utente non riesce a svincolarsi da una scelta tecnologica effettuata in precedenza, se non sostenendo rilevanti costi e rischi di migrazione (“switching costs“).

Jail
CC-BY Chris Potter

In altri termini possiamo dire che tutti gli investimenti di oggi in qualche modo limitano e condizionano le nostre scelte di domani, dunque la cosa importante è analizzare ed individuare il fenomeno del Lock-in in ogni scelta che facciamo e limitarne le dimensioni, arginando costi e rischi di un futuro “switch” (migrazione).

Esempi concreti?

Eccone uno (casualmente): dei software proprietari salvano i file in un formato “chiuso”, di cui appositamente non si rendono pubbliche le specifiche (le regole con cui si scrive e legge quel formato), in modo tale da impedire o rendere difficile che un utente possa usare un’altra soluzione equivalente. Vi ricorda il caso Office e LibreOffice?

Oppure, in un contratto d’acquisto: avere delle clausole di esclusività, o impegno di acquisto minimo, oppure di perdita di benefici se si cambia fornitore.

La dimensione del Lock-in dipende da diversi fattori, ma salta fuori quasi sempre all’origine una comune causa scatenante: l’adozione di soluzioni proprietarie chiuse (ovvero closed source), soprattutto quando parliamo di tecnologia (e, specificatamente, di software).

Questo fenomeno è particolarmente presente nella Pubblica Amministrazione (PA), malgrado gli obblighi derivanti dalla normativa nazionale (vedi ad esempio l’analisi comparativa obbligatoria delle soluzioni  di cui all’art. 68 del Codice dell’Amministrazione Digitale – CAD) e spesso anche dalla normativa regionale (vedi le numerose leggi sulla valorizzazione del Pluralismo informatico).

In compenso, però, durante la mia esperienza professionale ho dovuto constatare che non è solo la PA a cadere vittima del Lock-in, mostrandosi in maniera imbarazzante come “antiquata” e non al passo con i tempi. Anzi, è un fenomeno che riguarda spesso anche le aziende private.

Tanto per fare un esempio, mi capita quasi quotidianamente di avere a che fare con situazioni nelle quali i fornitori ICT della Pubblica Amministrazione, che dovrebbero rappresentare l’efficienza e l’efficacia, la ricerca e l’innovazione, la modernità  (il cosiddetto “privato” moderno contro il vecchio “pubblico”), in realtà risultino peggio messi della stessa PA. Lo dico con una certa tristezza, ma ho dovuto constatare che diversi fornitori, infatti, hanno fatto per anni solo affari con la PA e non hanno veramente favorito una buona innovazione (e sicuramente anche la PA non si è fatta aiutare in questo processo).

Basta analizzare i prodotti presenti oggi sul mercato o il modello stesso di business che questi fornitori ancora adottano e constatare:

  • vecchio client/server travestito da web oriented e nessuna novità tecnologica rilevante
  • architettura del software obsoleta, schemi logici vecchi di oltre 15 anni
  • soluzioni software che, pur vantando anni di esperienza nella gestione di problematiche per la PA e referenze prestigiose, non hanno ricevuto i necessari investimenti nel refactoring e reingeneering del codice sorgente
  • legami a doppio filo solo con specifici database proprietari “blasonati”, o con specifici sistemi operativi ed ambienti di sviluppo software (fornitori vittima a loro volta del Lock-in)
  • nessuna “astrazione” architetturale utile alla scalabilità dei sistemi
  • modello di business legato alla classica vendita di “software e manutenzione”, senza guardare di più alla fornitura di servizi e di soluzioni.

Conclusione: diciamocela tutta, la PA è e rimane spesso una specie di mucca da mungere.

E il fenomeno del riuso del software tra Pubbliche Amministrazioni? Ormai sembra più una bufala per aggirare procedure amministrative e che, in conclusione, porta a fenomeni di Lock-in identici a prima.

In realtà, c’è un modo molto efficace per ridurre il fenomeno del Lock-in tecnologico.

Innanzi tutto dobbiamo porre molta attenzione all’adozione di standard tecnologici aperti ed alla cooperazione verso altre piattaforme, ottenendo soluzioni più robuste e longeve, ovvero la possibilità di integrazione e realizzazione di architetture complesse e scalabili nel tempo.

Una soluzione più radicale e funzionale può essere altresì quella di affidarsi a soluzioni basate su software libero e questa scelta può rappresentare una vera opportunità:

  • riduzione del fenomeno di Lock-in, grazie alla disponibilità del codice sorgente, alla condivisione dell’esperienza con altre realtà e all’ampio uso di standard aperti (in sintesi, un mercato più aperto che lascia all’utente maggiore libertà di cambiare fornitore ed una più alta protezione del proprio investimento)
  • crescita di architetture tecnologiche moderne, grazie al contributo di diversi attori (esempio altre PA) che condividono esigenze analoghe, aprendo la possibilità di ottimizzare gli investimenti
  • adozione di soluzioni multipiattaforma e database indipendenti, ovvero non legate solo a specifici sistemi operativi (maggiore flessibilità)
  • abbattimento di costi diretti legati all’acquisto di licenze d’uso del software, che libera risorse economiche da investire ad esempio su formazione, consulenza, reingegnerizzazione delle vecchie soluzioni e soprattutto sul miglioramento dei processi, che è la vera sfida: inutile informatizzare la burocrazia (pubblica o privata che sia non fa differenza) senza semplificare prima i processi!

Nel campo dell’innovazione sto sinceramente raccogliendo segnali di sorpasso del “pubblico” rispetto al “privato“: storie di eccellenza, buone pratiche che si diffondono tra Enti, voglia di riscatto, di essere sistema pubblico, efficace, utile… sono esperienze ormai all’ordine del giorno.

Cari fornitori, lo dico in maniera provocatoria: abbiamo nuovi modelli di business incentrati sui servizi e soluzioni, ma soprattutto tanto tanto lavoro da fare.

Ci siete? Bene, battete un colpo, grazie!!

 MercoledìCastellani

 

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1 COMMENT

  1. Dal punto di vista economico, poi, solitamente i costi di lock-in emergono solo in fase di migrazione verso software libero, e vengono quindi imputati a quest’ultimo. (cfr. http://bit.ly/1i0g4zj). In realtà dovrebbero essere attribuiti al software proprietario: “sono costi di uscita dal software proprietario, non costi di entrata nel software libero” (R. Davoli). Quindi non azzerati, ma sottratti, rendendo quindi la soluzione libera doppiamente conveniente.

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