Quando il greenwashing diventa un boomerang: il caso BP

A cosa dovrebbe servire una campagna pubblicitaria, se non a mettere in luce tutto il meglio di un brand? In teoria tutto dovrebbe funzionare a meraviglia: si pianifica la campagna, si produce uno spot istituzionale con tutti i concetti da “stressare” messi giù per benino con l’adeguato tone of voice e poi lo si diffonde attraverso i canali più adatti.

Tutto funzionerà a meraviglia… a patto di averla raccontata giusta. Ne sa qualcosa BP, il colosso energetico britannico, che negli ultimi giorni si è è trovata a gestire un’ondata di polemiche (e non solo) in seguito al lancio di una campagna in cui viene illustrato l’impegno dell’azienda nel settore delle energie rinnovabili.

In realtà la campagna è iniziata all’inizio di quest’anno: per BP non si tratta di un’azione di marketing di routine, ma della prima campagna globale intrapresa dall’azienda da un decennio a questa parte, dopo il disastro ecologico del Golfo del Messico del 2010. Si può quindi facilmente intuire quanto fosse importante per l’azienda comunicare in modo efficace, per riabilitare l’immagine del proprio brand agli occhi del mondo intero.

Elemento di punta della campagna uno spot di poco più di 30 secondi diffuso praticamente ovunque, in cui si lascia intendere come la BP stia spostando il proprio core business dalle energie fossili a quelle rinnovabili “per aiutare il mondo ad andare sempre avanti”.

La campagna, iniziata lo scorso gennaio con la pubblicazione dello spot e proseguita in questi mesi anche attraverso un’intensa attività di out-of-home advertising, è però tornata agli onori delle cronache negli ultimi giorni, dopo che ClientEarth – una ONG di diritto ambientale – ha presentato un reclamo ufficiale presso le autorità del Regno Unito.

I legali di ClientEarth, infatti, hanno sottolineato come la campagna di BP sia “potenzialmente fuorviante e ingannevole”, in quanto parrebbe suggerire l’idea che BP stia abbandonando il settore degli idrocarburi per passare all’energia solare e al gas naturale. Cosa che, di fatto, non sarebbe vera: secondo Sophie Marjanac, uno degli avvocati di ClientEarth che ha depositato l’esposto, il 96% degli investimenti annuali di BP sarebbe nel settore del petrolio, dedicando una minima parte delle proprie risorse alle energie verdi.

 

BP avrebbe quindi messo in pratica una delle applicazioni più classiche del greenwashing: parlare del proprio impegno a favore dell’ambiente per distrarre l’attenzione dalle proprie attività principali, non esattamente “green”. La cosa ha però attirato l’attenzione degli attivisti che ha fatto notare come la campagna in questione fosse ingannevole e come BP stesse cercando di darsi “una mano di verde” nel tentativo di migliorare la propria reputazione agli occhi del pubblico, reputazione già pesantemente compromessa dopo l’incidente della Deepwater Horizon.

L’esposto di ClientEarth ha fatto breccia nell’opinione pubblica e il risultato è stato un accendersi della conversazione attorno a BP, ma non nei termini in cui quest’ultima avrebbe sperato:

 

Lesson Learned: Tornare a comunicare il proprio brand dopo una crisi globale è un’attività cruciale che deve essere studiata, pianificata e testata nei minimi dettagli: non basta semplicemente “mettersi in vetrina”, soprattutto se stai cercando di venderti per quello che non sei, e soprattutto se in un passato nemmeno troppo lontano tutto il mondo ti ha puntato il dito contro. 

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