La cultura imprenditoriale ai tempi del digitale

Vi sono due domande che continuano a emergere, in modo più o meno esplicito, in tanti dibattiti e discussioni che si svolgono nel nostro Paese:

  1. perché l’Italia non cresce?
  2. Perché tutti parlano di digitale come leva straordinaria per la crescita e siamo sempre in fondo a tutte le classifiche internazionali come il DESI?

Il ruolo del digitale

Da anni si discute di quali siano le motivazioni della mancata (o scarsa) crescita del nostro Paese a partire dagli anni ’90. Ultimamente va di moda dire che la colpa è da attribuirsi alle regole europee e all’euro che ci costringerebbero in una camicia di forza che ci vieta di svalutare o finanziarci come vorremmo e potremmo se avessimo una nostra moneta. Altri attribuiscono il nostro ritardo all’ingresso della Cina nel WTO e all’impatto che ciò ha avuto sulla competitività delle nostre imprese (specialmente quelle medio-piccole). Altri ancora ritengono che il problema sia l’inefficienza delle amministrazioni e delle istituzioni del Paese, o la rigidità del mercato del lavoro. Il ruolo del digitale (che guarda caso nei primi anni ’90 ha visto l’avvento di Internet e del web) è spesso sottovalutato o relegato alle discussioni tra gli addetti ai lavori.

Recentemente ho letto due articoli che vanno proprio al cuore di questi problemi. Ne riporto qui gli abstract e i riferimenti.

Il primo è un working paper di Bruno Pellegrino (UCLA) e Luigi Zingales (University of Chicago) intitolato emblematicamente “Diagnosis the Italian Desease” (NBER Working Paper №23964, agosto 2018). L’abstract sintetizza in poche parole una posizione che lascia pochi dubbi interpretativi:

We investigate why Italy’s labor productivity stopped growing in the mid-1990s. We find no evidence that this slowdown is due to competition from China, Italy’s protective labor regulations or increasingly inefficient institutions. By contrast, the data suggest that Italy’s slowdown was more likely caused by the failure of its firms to take full advantage of the ICT revolution.

Il secondo articolo è di altri due economisti, Fabiano Schivardi e Tom Schmitz (Bocconi) ed è intitolato “The IT Revolution and Southern Europe’s Two Lost Decades” (SSRN, marzo 2018). Anche in questo caso è utile riportare l’abstract dell’articolo:

Since the middle of the 1990s, productivity growth in Southern Europe has been substantially lower than in other developed countries. In this paper, we argue that this divergence was partly caused by inefficient management practices, which limited Southern Europe’s gains from the IT Revolution. […] We calibrate our model using firm-level evidence, and show that it can account for ~28% of Italy’s, 39% of Spain’s and 67% of Portugal’s productivity divergence with respect to Germany between 1995 to 2008.

Benché gli articoli abbiamo angoli di studio diversi (il secondo studia i Paesi del sud Europa) non può non sorprendere la convergenza nelle risultanze:

La mancanza della crescita in Italia dipende in larga misura dall’incapacità di utilizzare l’ICT come leva di trasformazione e innovazione delle imprese e dei relativi prodotti e servizi.

E a cosa sarebbe dovuto questo fallimento?

Scrivono Pellegrino e Zingales: “While many institutional features can account for this failure, a prominent one is the lack of meritocracy in the selection and rewarding of managers. Italian firms lag in the adoption of meritocratic management, leading to lower ICT usage. We conclude that familism and cronyism are the ultimate causes of the Italian disease”.

Scrivono Schivardi e Schmitz: “In our model, the IT Revolution generates divergence for three reasons. First, inefficient management limits Southern firms’ productivity gains from IT adoption. Second, IT increases the aggregate importance of management, making its inefficiencies more salient. Third, IT-driven wage increases in other countries stimulate Southern high-skill emigration.”

Possiamo sintetizzare quanto qui discusso con tre osservazioni:

  1. IT/ICT è un elemento decisivo per la crescita.
  2. Per promuovere l’utilizzo di IT/ICT servono manager e persone capaci.
  3. La mancanza di meritocrazia e lungimiranza determina l’immobilismo di molte imprese e la “fuga” di tanti giovani verso paesi dove quelle competenze sono maggiormente richieste e valorizzate.

Servono molti altri commenti?

La promozione di una cultura ai tempi del digitale

Quali sono di conseguenza le linee di azione sulle quali dovremmo concentrarci?

Abbiamo bisogno di promuovere una cultura del digitale allineata alle sfide che abbiamo di fronte a noi. Ciò richiede una incessante opera di informazione e formazione per i nostri professionisti, un investimento delle imprese e del Pubblico che innalzi il livello di conoscenza del ruolo delle moderne tecnologie digitali in tutti i professionisti e lavoratori, dai “blue collar” ai dirigenti aziendali. Soprattutto questi ultimi devono vedere il digitale come leva di sviluppo e di crescita e non come rischio.

È una ciclopica opera di cambiamento culturale prima ancora che di innovazione tecnologica.

In questo contesto, un ruolo cruciale è giocato dalla politica e dai policy makers. Purtroppo, molti politici vedono il digitale come un rischio dal quale difendersi. È una difesa inutile, sterile, controproducente. È come svuotare un oceano con un secchiello, illudendo i cittadini che il digitale sia “il male” e che sia possibile “bloccarlo” o limitarne gli effetti. Altri, al contrario, ne hanno una visione superficiale, naive, fanciullesca. Complessivamente, troppe decisioni politiche e strategie legislative nascono da una visione del digitale che non è all’altezza delle sfide che il nostro Paese deve affrontare.

Sviluppare una moderna cultura di impresa (e di società) ai tempi del digitale è la sfida che dobbiamo affrontare e sulla quale tutti dobbiamo impegnarci. Ne va del futuro non solo di qualche impresa, ma dei nostri giovani e dello sviluppo complessivo della nostra società.

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