Quando il greenwashing c’è ma non si vede (perché è scritto piccolo piccolo)

Parlare di greenwashing non significa solo parlare di strategie di comunicazione: molto spesso si tratta di qualcosa di molto più profondo, radicato nell’ideazione e nella produzione del prodotto stesso. Ad esempio, un prodotto che nasce per essere spacciato per quello che non è.

È il caso di Kauai Coffee, brand statunitense di caffè che qualche anno fa ha lanciato sul mercato delle capsule monodose definite “100% compostabili” che, in realtà, non lo erano. O che perlomeno non lo erano nel modo in cui ci aspetterebbe.

Tutti ci preoccupiamo di quanto possano essere inquinanti le capsule monodose di caffè, di come possano essere smaltite nel modo più “green” possibile e di come certi materiali possano essere riciclati. Oggi le cose sono piuttosto cambiate e molti produttori di capsule per caffè, tra cui diverse aziende italiane, hanno cominciato a produrre “vere” capsule compostabili, che possono essere smaltite direttamente nel secchiello casalingo dell’umido.

Non è stato però il caso di Kauai Coffee che un paio di anni fa annunciò in grande stile di aver creato delle capsule compostabili pronte per servire in tazza il famoso caffè coltivato, tostato e “incapsulato” alle Hawaii. “Ora puoi goderti il gusto e la convenienza di ogni capsula senza preoccuparti dell’impatto ambientale – si leggeva sul sito della roastery hawaiana – Le nostre capsule certificate 100% compostabili sono compatibili con tutte le macchine K-Cup e sono pensate per tornare nella terra, non in discarica“.

Peccato che non tutto era come sembrasse: come evidenziato dal sito truthinadvertising.org le capsule di Kauai Coffee erano state certificate come “compostabili” da un singolo ente, il Biodegradable Products Institute, ma solo se smaltite e trattate in appositi stabilimenti. In altre parole: quelle capsule non potevano essere semplicemente buttate nel cestino dell’umido o nel contenitore del compost casalingo, come ci si aspetterebbe da un prodotto definito “compostabile”, ma dovevano essere raccolte e portate in un’apposita discarica.

E come era spiegato questo “piccolo particolare” sul sito di lancio delle nuove capsule e anche sulla confezione delle capsule stesse?
Così:

Foto via: https://www.truthinadvertising.org/

Mentre la dicitura “Certificate 100% compostabili” campeggia a grandi lettere in ogni dove, confezioni comprese, è soltanto sul sigillo di certificazione posto in fondo alla pagina che, in caratteri minuscoli, si legge che in realtà quelle capsule sono sì compostabili, ma solo in strutture apposite. (QUI l’immagine ingrandita e leggibile). Strutture che, tra le altre cose, non sarebbero state nemmeno presenti nelle Hawaii, terra di produzione del caffè Kauai.

Insomma, Kauai Coffee ha messo in pratica una delle prime regole del greenwashing: strillare solo quello che si vuole mettere in evidenza e sussurrare il resto o, come in questo caso, relegare in un angolino e scritto piccolo piccolo la parte più “scomoda” e decisamente meno “green” della realtà del proprio prodotto.
Il risultato è quello che si può facilmente immaginare: come reagireste se, comprando un prodotto che pensavate di poter buttare comodamente nell’umido, doveste poi scoprire che non solo non è così, ma che vi aspetta pure un lungo viaggio per smaltirle nel modo corretto?

Lesson Learned: Se “in amore e in guerra tutto è lecito”, sembra esserlo anche nel mondo del commercio. È responsabilità del singolo essere informati: e, talvolta, essere informati significa semplicemente leggere le etichette fino alla fine. 

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