Open data: serve una norma più chiara. L’open by default non funziona

Il principio “open by default” inserito nel 2012 nel Codice Amministrazione Digitale (art. 52) è un “accrocchio giuridico” e non è affatto la soluzione normativa ottimale per agevolare la libera diffusione e il libero riutilizzo dei dati delle PA italiane. Certo, è sempre meglio avere quel principio nel nostro ordinamento piuttosto che non averlo; ma davvero potremmo avere qualcosa di più semplice e più efficace. E forse adesso i tempi sono davvero maturi perché il legislatore decida di fare questo passo.

Prima di arrivare al cuore del problema e a una proposta concreta di miglioramento, facciamo qualche passo indietro per capire quale fosse la situazione normativa prima del 2012 e come siamo arrivati a questa soluzione.

Open data: l’inizio del dibattito

Attorno al 2009/2010 l’open data e il riutilizzo della cosiddetta public sector information era diventato tema caldo del dibattito politico e scientifico. Esso si poneva da due punti di vista: quello tecnologico più relativo all’aspetto dei formati e degli standard tecnici da adottare per la messa a disposizione dei dati e dei documenti della PA, e quello giuridico relativo invece alle restrizioni legali che possono insistere su tali dati e documenti: principalmente diritti di proprietà intellettuale, vincoli legati alla tutela della privacy (se nei dati sono contenuti anche dati personali) ed eventuali vincoli di segretezza (segreto di Stato, segreto d’ufficio, segreto industriale, etc.). Il dibattito cercava quindi di affrontare le varie questioni emergenti e io, in virtù della mia estrazione, avevo seguito più che altro l’aspetto della proprietà intellettuale, che a ben vedere era quella di più facile soluzione. In questo articolo mi occuperò proprio di questo e vi mostrerò come invece il legislatore italiano sia stato capace di complicare anche una questione semplice.

Un copyright sui dati della PA?

La legge sul diritto d’autore italiana (la legge 633/1941) non ha una norma che si occupi espressamente dei dati e documenti prodotti e pubblicati dalle pubbliche amministrazioni. Ha solo il laconico art. 5 che stabilisce letteralmente che non vi è alcuna forma di copyright “sui testi degli atti ufficiali dello stato e delle pubbliche amministrazioni”. La dottrina giuridica maggioritaria ha sempre sostenuto che la norma andasse interpretata in senso restrittivo e che quindi fosse applicabile solo ai testi, lasciando fuori tutti quegli atti ufficiali che non sono in forma testuale, come appunto i dataset, le tabelle, le immagini, le mappe.

Dunque, eccetto i casi dei testi delle sentenze e dei testi di leggi, regolamenti, delibere, circolari, non è sufficiente far leva sull’art. 5 per utilizzare liberamente dati e documenti delle PA. Restano fuori ad esempio i dati geografici, i dati relativi al traffico, i dati relativi ai trasporti, documenti come i piani regolatori o come le planimetrie catastali, etc.

Quindi in mancanza di una norma di legge non resta che cercare altrove l’autorizzazione al libero utilizzo, ad esempio in una licenza libera (come le licenze Creative Commons) applicata dal titolare dei diritti. E per fortuna già dai primi anni dell’attuale decade furono molte le PA italiane ad attivarsi in quella direzione e a rendere “open” i propri dati attribuendo loro una licenza libera.

Come si arrivò all’open by default

Purtroppo però non tutte le PA italiane si erano mostrate così illuminate e dunque il legislatore dell’epoca (era il 2012) iniziò a porsi il problema di sbloccare la situazione con un intervento più generale.

Due erano le opzioni: la prima (quella a mio avviso più logica e sensata) consisteva nell’intervenire sul citato art. 5 chiarendone e ampliandone la portata affinché ricomprendesse inequivocabilmente anche dati e documenti; la seconda consisteva invece nel forzare in qualche modo le PA ad adottare delle licenze open per “liberare” i propri dati e documenti. Per ragioni politiche che ancora oggi non mi spiego, la prima opzione venne tassativamente esclusa; “la legge sul diritto d’autore non si tocca!” sembra che abbia detto qualcuno.

Dunque si dovette ricadere nella seconda delle due opzioni. La stesura della norma però si rivelò meno semplice di quello che poteva sembrare; come fare a obbligare pubbliche amministrazioni di diverso grado e con diverse competenze ad adottare licenze open, rispettando la loro (sacrosanta) autonomia amministrativa? Un bel dilemma.

In che cosa consiste davvero l’open by default?

Fu così che qualcuno propose la soluzione dell’open by default, che io poco sopra ho definito “accrocchio giuridico” e che – attenzione al punto dolente – è stato inserito nel Codice Amministrazione Digitale (il D. Lgs. 2005/82), quindi un testo normativo nell’ambito del diritto amministrativo che nulla ha a che fare con il diritto d’autore, senza però adeguare la legge sul diritto d’autore. La nuova versione del CAD arrivò quindi con il decreto noto come “Crescita 2.0”, convertito poi nella Legge 221/2012.

Il meccanismo del cosiddetto open by default è in effetti scaltro: sfruttare in positivo l’inerzia delle pubbliche amministrazioni che non si attivano adottando licenze open per i loro dati e documenti. Questo è il testo della norma (in versione abbreviata): “I dati e i documenti che le amministrazioni titolari pubblicano, con qualsiasi modalità, senza l’espressa adozione di una licenza, si intendono rilasciati come dati di tipo aperto”. In altre parole, se una PA pubblica dei dati o dei documenti e per qualche motivo non indica una licenza d’uso, i cittadini possono sentirsi liberi di utilizzare quei dati e documenti invocando l’art. 52 CAD e senza dover chiedere il permesso.

Per comprendere meglio il principio open by default suggerisco la visione di questo breve video

Perché secondo me l’open by default non funziona?

Il meccanismo tuttavia non funziona per un motivo semplicissimo: non si sa mai con certezza se davvero la licenza non c’è. Ricordiamoci infatti che l’open by default scatta quando la licenza manca totalmente e non quando semplicemente non si trova oppure è stata ben nascosta. Tutte le volte che un cliente mi ha incaricato di verificare quali fossero i termini di utilizzo di un dataset pubblico, mi sono trovato a dovermi barcamenare in siti web non aggiornati, con pagine “copyright” con link rotti, con rimandi a pagine “copyright” di altri siti web (ancora più vecchi), oppure con pagine “copyright” così oscure e fantasiose (il buon Tognazzi le chiamerebbe “supercazzole”) da non permettermi di esprimere un parere legale solido e univoco. A volte non vi è traccia di licenze o di disclaimer sul copyright in tutto il sito web della pubblica amministrazione esaminata, salvo poi trovare una licenza o un disclaimer sotto forma di un file “read me” annegato all’interno di un archivio ZIP assieme a decine o centinaia di file in vari formati (che contengono i dati).

Ne consegue che spesso mi trovo costretto a mantenere un approccio prudente e suggerire al cliente di contattare il titolare dei vari siti web, con il rischio di “svegliare il cane che dorme” e attivare un effetto controproducente.

Non credo fosse questo lo spirito originario dell’open by default. Anzi.

Una nuova norma per l’open data

Se le strade praticabili sono solo due, e se diamo per comprovato il fallimento dell’open by default, non resta che passare alla strada non ancora praticata: modificare l’art. 5 della legge sul diritto d’autore.

Questo potrebbe essere il nuovo testo.

Le disposizioni di questa legge non si applicano:

a) ai testi degli atti ufficiali dello stato e delle amministrazioni pubbliche, sia italiane che straniere;

b) alle banche dati e ai documenti realizzati e pubblicati dallo stato e dalle pubbliche amministrazioni nell’esecuzione della propria missione istituzionale o comunque in ossequio a un obbligo di legge. Questa previsione si estende alle opere dell’ingegno, come immagini, disegni, tabelle, mappe e opere simili, che sono parte integrante dei documenti realizzati e pubblicati.

Certo, è solo l’umile proposta di un giurista indipendente e sicuramente può essere oggetto di ulteriori migliorie. Ma credo che sia un buon punto di partenza per un dibattito sull’eventualità di una riforma delle norme sull’open data.

Ovviamente, nel caso venga adottata una soluzione simile, sarà necessario adeguare di nuovo il CAD per evitare ridondanze e ulteriori sovrapposizioni.

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Simone Aliprandi ha un dottorato in Società dell’informazione ed è un avvocato che si occupa di consulenza, ricerca e formazione nel campo del diritto della proprietà intellettuale, con particolare enfasi sul mondo delle tecnologie open e delle licenze Creative Commons. Nel 2005 ha fondato il Progetto Copyleft-Italia.it (primo progetto italiano di divulgazione sul tema delle licenze open) e dal 2009 è membro del network di professionisti Array. Svolge costantemente attività di docenza presso enti pubblici e privati, ha all’attivo varie pubblicazioni (tutte rilasciate con licenze libere) e scrive costantemente per alcune testate web oltre che sul suo blog. Tra le sue opere più conosciute "Capire il copyright. Percorso guidato nel diritto d'autore", "Creative Commons: manuale operativo" e "Il fenomeno open data". Sito web: www.aliprandi.org

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