“L’illusione della conoscenza” di Steven Sloman e Philip Fernbach, edito da Raffaello Cortina Editore, è un libro che però solleva un’importante considerazione, e cioè che l’uomo è meno intelligente di quello che crede.
Gli esseri umani hanno sviluppato società e tecnologie molto complesse, ma la maggior parte di noi non sa nemmeno come funziona una penna o una bicicletta, si legge nella quarta del libro che inizia con un quesito particolare. Sloman e Fernbach dimostrano con diversi esempi che si parla per lo più di cose che in realtà non conosciamo: quanti sanno come funziona lo sciacquone in bagno? Tutti lo usano, ma pochissimi ne conoscono il funzionamento.
Abbiamo l’impressione di essere più intelligenti di quello che in realtà siamo, perché è la comunità della conoscenza che viviamo a regalarci questa illusione: il segreto sta nelle persone e nelle cose intorno a noi, sono le nostri menti collaborative che creano l’intelligenza sfruttando la comunità che ci circonda.
“Il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, è l’illusione della conoscenza” diceva l’astrofisico Stephen Hawking, perché è facile sopravvalutare le proprie conoscenze quando non si hanno delle competenze professionali a riguardo e questo può condurre a concetti falsi o a situazioni inesistenti. Saper leggere, scrivere o contare ma non saper interpretare la realtà che ci circonda ci rende analfabeti funzionali e, come diceva Tullio De Mauro, più del 70% della popolazione è al di sotto di quelli che vengono ritenuti i livelli minimi di comprensione di un testo scritto. Se la domanda è un po’ più complessa e richiede una buona conoscenza, ma anche una buona capacità di utilizzazione della conoscenza, pieno esercizio dell’alfabetizzazione funzionale, della capacità di orientarsi di fronte al testo scritto e di produrlo, la percentuale degli inefficienti arriva addirittura all’80%.
Pensiamo di fare da soli le nostre scelte, in qualsiasi ambito, da quello scolastico a quello politico, ma in realtà è il pensiero comune che ci guida.
Questi dati ci devono far riflettere perché agire con superficialità e pressappochismo può condurci a fare errori terribili. La mente alveare dell’intelligenza collettiva ci deve far pensare che una persona si può definire intelligente se sa osservare e mettere insieme diverse conoscenze che provengono anche da altri in grado di colmare le sue lacune.
Già negli anni settanta, il filosofo Pierre Levy sosteneva che se due persone distanti sanno due cose complementari, per il tramite delle nuove tecnologie, possono davvero entrare in comunicazione l’una con l’altra, scambiare il loro sapere, cooperare.
Quotidianamente, e il più delle volte inconsapevolmente, attingiamo informazioni e conoscenze nell’ambiente circostante, nelle teste degli altri e questo deve portarci a pensare alle comunità come ad una sorta di scatto evolutivo[1].
Proviamo dunque ad abbandonare questa sensazione di certezza e affidiamoci di più alle nostre menti collaborative.
Che lo si voglia o no, un futuro migliore dipende proprio da questa dimensione. Abbiamo bisogno non solo di aziende e istituzioni più efficienti, ma anche di gruppi di persone in grado di lavorare insieme senza ego, senza attriti e disattivando quel pensiero rigido che erige muri incredibili davanti alla possibilità di progresso e al benessere. Come dice sempre Pierre Levy “nessuno sa tutto, ognuno sa qualcosa, la totalità del sapere risiede nell’umanità”.
[1] cit. tratta da Costruire communities. Come cambierà il futuro del capitalismo, dell’economia, della società e del lavoro, Roberto Panzarani, Lupetti editore, 2018)
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