Di Trump, democrazia ed imperialismo di piattaforma

Il ban a Trump e le sue possibili implicazioni, e perché la soluzione al problema dovrà essere frutto, prima di tutto, di una riflessione sociale e politica

Giustizia è fatta”. Questo il commento soddisfatto di chi – nella diatriba tra Trump ed i Social Media – ha visto nel ban a Trump una vittoria della democrazia. Poco importa che si sia trattato di giustizia sommaria, o comunque – nel migliore dei casi – di “giustizia privata”. L’importante è stato aver tolto voce al cattivo di turno. E pochi si sono preoccupati di cosa ciò possa voler dire in un quadro più ampio. Perché tra il dito rappresentato da Trump e la luna rappresentata da ciò che questo possa significare per la democrazia in quello che qualcuno, non a torto, inizia a definire imperialismo di piattaforma, è più facile guardare al dito.

Sarà interessante vedere cosa succederà nelle opinioni dei giustizialisti della prima ora adesso che anche istituzioni europee e diversi leader del vecchio continente si stanno dicendo preoccupati della piega che sta prendendo la situazione. Soprattutto dopo le evoluzioni che hanno visto protagonisti il social network Parler ed il politico Ron Paul (tra gli altri) nell’esuberanza miope di chi, accecato dall’ideologia, non si sta rendendo conto che si sta rischiando di compiere un passo dal quale potrebbe essere difficile tornare indietro.

Come al solito, infatti, il problema è mal posto: il punto non è tanto chiedersi se fosse giusto o meno bloccare Trump, ma quale fosse il processo corretto per farlo, e con il coinvolgimento di quali attori.

  • È un compito delle piattaforme?
  • E come mai – visto che l’argomento di molti è che le azioni di Trump si stessero protraendo da mesi – nessuna corte di giustizia ha condannato Trump obbligando i social media a bloccarlo (quelli di cui si accusa Trump sono tutti reati…)?
  • Perché sono stati i social media a prendere una decisione che sarebbe spettata ad un tribunale?

D’altro canto, gli argomenti a favore dell’esclusione di Trump dai social media sembrano esserci, peccato che molti di questi – a guardarli bene – siano comunque drammaticamente fallaci.

Ne ho parlato in alcune interviste tra le quali riporto quella di Franz Russo e quella su Il Riformista, ma soprattutto un paio di giorni fa nel bel podcast di Matteo Flora, Ciao Internet del quale riporto qui gli appunti principali…

Ci sono i Termini di Servizio che Trump ha sottoscritto come tutti gli utenti di Facebook

È il mantra del “neo-giustizialismo di piattaforma”. Si, ci sono. Ma il Presidente degli Stati Uniti non è proprio un utente come gli altri, e – in ogni caso – indipendentemente da ciò Facebook non è esattamente il salumiere sotto casa. Il ruolo che hanno assunto le piattaforme è tale per cui la loro capacità di condizionamento ed il loro impatto sui sistemi democratici, che ci si riferisca a Trump o a Giuseppina86, va regolamentato al di là di policy più o meno ben fatte ma in ogni caso auto-definite. Non può bastare un “regolamento interno” per governare una piattaforma che gestisce il modo in cui miliardi di utenti si informano, comunicano, scelgono. Qualsiasi regolamento interno va ascritto ad uno schema regolatorio che ne determini gli ambiti d’impatto. Soprattutto quando questo regolamento si basa su un principio, sancito dalla sezione 230 del communication decency act statunitense, che determina come “nessun fornitore di servizi Internet possa essere considerato responsabile, come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi”. Regolamento che le piattaforme difendono a spada tratta, volendo però anche il privilegio di comportarsi da editori. Delle due l’una: o si è neutrali rispetto ai contenuti o si assume il ruolo di editori. E si sta alle regole degli editori. Forse, dal 1996, è ora di rivedere quel Communication Act che proprio Trump aveva attaccato. E si tratterà, poi, di rendere compatibili i TOS delle piattaforme con le regole adatte alla loro natura.

Ma Facebook non è internet, Trump può andare altrove

Cosa vera ai tempi delle BBS, ma che oggi è del tutto opinabile dal momento in cui nella sostanza, per miliardi di utenti, la rete corrisponde esattamente a ciò che poche piattaforme decidono che sia. Google definisce a cosa si può arrivare, Facebook decide con chi si può entrare in contatto, Amazon stabilisce cosa si può acquistare (e chi può stare on-line), Netflix cosa si può vedere, Apple cosa si può ascoltare. Esserne fuori vuol dire non esserci. E questo non si può consentire senza uno schema regolatorio preciso, quando non esserci vuol dire nei fatti scomparire dall’orizzonte delle scelte della società.

Mica si può nazionalizzare Facebook, è una società privata: non siamo in Cina

Peccato che non sia stata la Cina, nell’ormai lontano 1984, a prendere di petto la AT&T e – in funzione della sua posizione di monopolio potenzialmente dannosa per il mercato – spezzettarla nelle Baby Bells. Quindi, se un’azione del genere può essere fatta per tutelare lo sviluppo del mercato e garantirne la sostenibilità economica, non ci sono motivi per i quali quest’azione – o altra che sia efficace – non possano essere ipotizzate per salvaguardare la sostenibilità sociale e la tenuta dei nostri sistemi democratici. La soluzione potrà non essere quella adottata con AT&T, ma – certo – una soluzione va trovata. E non sarà semplice farlo.

Ripensare la tecnologia

La soluzione non è semplice né immediata, ma trovarla è di importanza cruciale. Per farlo si può guardare alla tecnologia, che il problema ha contribuito a generarlo, anche per cercare di risolverlo nell’ottica della sostenibilità digitale, ossia ricorrendo al digitale come strumento di supporto alla sostenibilità economica e sociale. La tecnologia, oggi, ci permette di ripensare processi e modelli. Ci permette di tornare a guardare alla rete come insieme di protocolli piuttosto che di piattaforme, ed immaginare sistemi distribuiti nei quali le aziende possano non avere più un ruolo così centrale. Alcune tecnologie permettono processi di decentralizzazione radicale basati su architetture che ruotano attorno al concetto di self sovereign identity, che mette davvero l’utente al centro e gli consente una gestione totale delle informazioni che lo riguardano. Insomma: oggi le tecnologie per affrontare il problema esistono. Quello che serve è la visione per svilupparle, costruendo un’alternativa concreta ad un modello che sta mostrando sempre più evidentemente i suoi limiti.

Politica: la grande assente

In tutto ciò la grande assente è stata la Politica (e non solo quella italiana) degli ultimi anni. Perché se più volte lo stesso Zuckerberg ha affermato che aziende private non dovrebbero prendere decisioni del genere (“I don’t think private companies should make so many decisions alone when they touch on fundamental democratic values”) e che le piattaforme hanno troppo potere nel determinare la libertà di parola (“Lawmakers often tell me we have too much power over speech, and frankly I agree. I’ve come to believe that we shouldn’t make so many important decisions about speech on our own“) è altrettanto vero che neanche i politici più illuminati hanno considerato questo tema davvero centrale.

Certo, non sappiamo ancora quale sia la soluzione, ma sappiamo che dovrà essere frutto di una riflessione sociale e politica: solo a valle di ciò di una scelta tecnica. Chi oggi plaude a Dorsey & Zuckerberg sappia che quelle piattaforme che oggi pensiamo abbiano fatto evitare problemi “più grandi” per la democrazia, in virtù dei quali passare sopra a fondamentali questioni di diritto, sono quelle stesse piattaforme che potrebbero determinare e decidere chi sarà il prossimo Trump. Dal quale potrebbe essere più difficile tornare indietro.

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