Costruire ponti, ascoltare e comprendere, prendersi cura delle persone, saldare relazioni professionali e non. Questi gli effetti collaterali dello scegliere le parole e dello “scrivere bene”, mestiere che si può imparare formandosi, indispensabile in un momento in cui la comunicazione in azienda passa soprattutto per chat, email, messaggi autonomatici. Annamaria Anelli, docente di scrittura professionale, lo spiega con le parole giuste e con tanti esempi nel libro “Caro cliente” e lo rimarca in questo scambio di idee su come è cambiato il nostro modo di interagire con gli altri e sulle attenzioni nuove e vecchie che dovremo avere.
Nel libro parli di “cura delle parole” e scelta di queste con grande attenzione soprattutto in ambito professionale. Quanto a tuo avviso l’involuzione digitale ci ha portati a non curare più il linguaggio e perché? Come porre rimedio?
Io non sono sicura che possiamo parlare a cuor leggero di involuzione digitale. Parlerei forse di un disvelamento digitale, perché per me il digitale ha solo dato risonanza e voce a quei pensieri più biechi, retrogradi, misogini, violenti che ci sono sempre stati. Solo che prima dei social rimanevano più riservati, contagiavano di meno. La viralità consentita oggi dal digitale è qualcosa che ci rende più consapevoli di certi pensieri e delle conseguenti parole.
Cosa si può fare per curare il linguaggio? Anche qui bisognerebbe parlare di cosa si può fare per curare di più le persone, nel senso di prendersene cura. C’è una canzone meravigliosa di Battiato che ci viene in aiuto e che non a caso si chiama “La cura”. La cura dell’altro viene prima come gesto e poi come parola. Battiato dice a un certo punto: “Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza”. Ma quando mai noi tacciamo e aspettiamo un attimo prima di prendere fuoco e commentare come fiamme impazzite? L’esempio lampante è il twittare malato di Trump, ma, per stare a casa nostra, certi politici sono così presenzialisti sui social – con notizie false o contraffatte e tanta cattiva retorica – da far venire i brividi.
Certa violenza verbale è diventata quasi di moda.
Ho appena finito di leggere La famiglia Karnowski, di Israel Joshua Singer: un romanzo davvero molto bello che narra la vita di una famiglia ebrea attraverso tre generazioni; da un paesino polacco, al trasferimento a Berlino, alla fuga a New York. Piano piano, prima solo in trasparenza, poi con toni sempre più vividi, il nazismo prende piede a Berlino, dove vive la famiglia, e in tutta la Germania. Prima sussurri e mugugni, poi parole più nette, articoli sui giornali, libri, comizi, marce, fino ad arrivare alla violenza vera e propria e all’abominio successivo che ben conosciamo.
Le parole significano cose, diventano cose, sono cose. Per questo il mio punto preferito del Manifesto della comunicazione non ostile ideato dal progetto “Parole Ostili” è il numero 6: Le parole hanno conseguenze. Ogni nostra parola è come un sasso lanciato nel cuore e nella testa di una o più persone.
Ma dicevamo del silenzio: il silenzio non è solo quello social, è prima un movimento del cuore verso l’altro, un movimento difficilissimo da compiere. Io immagino il silenzio come una posizione yoga particolarmente difficile, che impieghi anni per praticare nel suo modo armonioso. Ti devi esercitare un po’ tutti i giorni. Così per il silenzio. Ti smozzichi la lingua un po’ tutti i giorni.
Impariamo a fare silenzio nei casi di violenza verbale nei quali non c’è possibilità di far cambiare idea, là dove i pensieri sono malsani e malati. E poi le parole.
Usiamo con più accortezza le parole nel nostro piccolo, perché tanti piccoli diventano un grande: dopo i gesti, i movimenti di cura e accoglienza, anche le parole dovrebbero cercare di accogliere. Dico dovrebbero perché è una cosa difficilissima: me ne accorgo da mamma di due figli. Tutti i giorni mi dimentico di mordermi la lingua, e tutti i giorni partono parole sbagliate, stilettata al cuore, espressioni che chiudono invece di aprire. Se è così difficile nel chiuso degli affetti più intimi, come può essere facile fuori, con chi non conosci. Eppure, anche qui, è l’allenamento quotidiano ad aiutarci. Io ci provo più che posso sia sul lavoro sia nella vita sociale e familiare: nelle email, nei post, nella mia newsletter, quando vado al mercato, quando parlo alle fermate del bus. È un lavoro quotidiano prima di tutto su sé stessi, quello dell’usare parole che aprono invece di chiudere. E non finisce mai.
Il problema delle competenze digitali è sempre dibattuto, soprattutto dopo le classifiche che ci posizionano agli ultimi posti delle classifiche. Cosa è necessario fare per colmare il gap degli imprenditori? Quali gli errori commessi finora a tuo avviso?
Sul lavoro il problema delle parole è molto legato all’improvvisazione. Quante aziende affidano i propri social a persone impreparate? Vi ricordate il caso di Groupalia e del terremoto? Qui su Tech Economy ne avete parlato in maniera molto approfondita, a suo tempo. In quel caso la tendenza dei brand coinvolti nel disastro (povertà umana prima che comunicativa), era quella di dare la colpa allo staff. Bruttissimo modo di affrontare la questione. In momenti di crisi si chiede scusa compatti, senza se e senza ma. Scusate, siamo stati degli idioti, tutti. Punto.
Però alla base c’è un discorso da fare: i team preposti alla comunicazione social devono essere formati esattamente come tutti gli altri che in azienda si occupano di comunicazione. Visto quanto un tweet ci mette a sputtanarti, tu, brand, come fai a pensare che a rispondere su Facebook ci puoi mettere chiunque?
Ci vuole formazione prima di tutto basilare, sulla comunicazione, poi sulla scrittura in particolare, e sulle regole dei canali social per ultimo.
Una parte dell’ultimo libro che hai scritto, Caro cliente, parla anche di BOT. Sappiamo che l’intelligenza artificiale è già una realtà per molte cose, quali i rischi e quali invece le opportunità ancora non comprese?
Io vedo solo opportunità, se sfruttiamo BOT e intelligenza artificiale con un’ingegneria sotto. Con un’ingegneria sotto vuol dire che non lasciamo al caso nulla e quindi chi progetta fa quello, chi si occupa di interfacce fa quello, chi si occupa di user experience fa quello, e anche chi scrive il copione per i BOT fa quello, nel senso che è un professionista che nella vita lavorativa è esperto di comunicazione e di scrittura efficace.
Perché la parte di creazione dei contenuti in risposta alle domande dei clienti le fa con la mano sinistra uno che di solito svolge un altro lavoro? Questo non lo capisco. Vado forse a farmi operare da uno che fa il costruttore di case e nel tempo libero ama usare i coltelli di ceramica? Esagero, però è spesso così: con i motori semantici si ha l’opportunità di lavorare molto sulla comprensione da parte della macchina e sarebbe bello fare altrettanto anche sulla parte conversazionale. Rendere i dialoghi quanto più fluidi possibile e a misura di comprensione umana.
Per le aziende potrebbe essere l’occasione di demandare ai BOT una parte di lavoro di routine, a basso valore aggiunto, lasciando agli umani il compito di rispondere su argomenti di natura più delicata o anche solo più complessi.
Se dovessi fare una classifica dei 3 errori più comuni commessi dalle aziende nel comunicare con strumenti digitali, cosa metteresti?
In sostanza ricapitolo quanto ho detto prima: poca attenzione alle persone che vengono preposte a questo tipo di comunicazione e che, non dimentichiamocelo mai, quando twittano o postano o rispondono in chat ai clienti rappresentano, sono, l’azienda; poca formazione specifica; improvvisazione.
Anche sulla base degli errori più comuni che hai visto fare, 3 consigli che vorresti dare per migliorare la comunicazione in digitale?
- Scovate i talenti. Quante volte l’azienda è così fortunata da scoprire per una serendipity felice di avere al proprio interno persone con passioni magnifiche che potrebbero essere messe al servizio del brand? Poche. Quindi significa che bisogna fare scouting interno, chiedere, annusare, offrire delle possibilità.
- Non affidate i vostri canali social a dei perfetti estranei. Io lo so che mi inimicherò qualcuno, ma non è l’agenzia di comunicazione che vi ha fatto il logo nuovo a poter comunicare al posto vostro. Formate qualcuno dall’interno, che si sente parte del tutto, che è cresciuto dentro o che comunque ha vissuto quel tanto in azienda da sapere come vanno le cose o almeno a chi chiedere. I contenuti più belli sono quelli che si conservano all’interno, grazie alla storia delle persone che ci lavorano, che hanno visto il bello e brutto e possono raccontare aneddoti gustosi. Ma…
- …non improvvisate. Non è la Giulia che prima faceva la segretaria di direzione e conosce tutti a poter rispondere sul Facebook aziendale. Così come non si può mettere a rispondere in chat persone per le quali non si trova una diversa occupazione: il customer care non è un parcheggio, è la possibilità per l’azienda di continuare a prosperare e di crescere. Occorre formazione, formazione, formazione.
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