Dal caso ebook Microsoft: proprietà sui contenuti digitali solo illusione?

Lasciatemi iniziare con un gioco di parole che utilizzo spesso come battuta nei miei corsi: durante l’esame di diritto industriale ebbi un principio di esaurimento nel comprendere il principio dell’esaurimento. No, tranquilli, non sto delirando; è solo umorismo nerd che possono capire solo pochissimi addetti ai lavori del settore “proprietà intellettuale” e che si riferisce a uno dei principi cardine del diritto d’autore (che vi spiegherò più avanti). Dell’esistenza di questo principio si sono accorti tutti coloro che nei giorni scorsi hanno letto, con grande disorientamento, la notizia della scelta di Microsoft di dismettere il suo bookstore che non è mai davvero decollato, con conseguente promessa della restituzione dei soldi fin qui versati dagli utenti del servizio. In sostanza, chi ha comprato degli ebook tramite quella piattaforma si vedrà rimborsare il prezzo versato e vedrà “scomparire” il suo account e con lui tutti i libri acquistati.

Nulla di sconvolgente per chi conosce un po’ questo settore: è sempre stato così. Grazie agli strumenti di natura giuridica e tecnologica che vi illustrerò di seguito i titolari dei diritti che diffondono opere creative (libri, musica, video, software) attraverso internet riescono a mantenere un controllo delle varie “copie” molto più saldo e duraturo di quanto avvenga nel mondo delle copie fisiche.

Colpa di quella cattivona di Microsoft, o colpa nostra?

La recente vicenda purtroppo mi porta a tirar fuori il mio lato pedante e acido e dover gridare il classico “io ve l’avevo detto!”. Ve l’avevo detto chiaramente, in un articolo risalente al giugno 2014 (cinque anni fa) e intitolato proprio La biblioteca digitale effimera: un problema di “esaurimento”. Quindi – fatevene una ragione – non è Microsoft a essere la solita cattivona, ma siete voi che non leggete i miei articoli! Ovviamente sto scherzando; non sono certo i miei articoli a poter plasmare le menti degli internauti. Anche se in effetti ciò che io ho umilmente spiegato nel 2014 altre voci ben più autorevoli e visibili della mia l’avevano spiegato anche qualche anno prima, in commento ad altre vicende simili (di cui forse la prima di fama mondiale fu quella del 2009 con protagonista Amazon).

Ergo, questa recente vicenda non è altro che un nodo che viene al pettine dopo anni e anni di “illusione” di milioni di utenti convinti di comprare un bene che invece si accorgeranno (troppo tardi) aver solo pagato la fee di un servizio. Se ne accorgeranno coloro che vorranno lasciare in eredità la loro “biblioteca digitale” ai loro figli e scopriranno che in realtà l’account su Amazon o su iTunes è strettamente personale. Ciò nonostante, anche in quel caso, nessuno si possa indignare perché arriverebbe presto un altro Aliprandi della situazione a dire “io l’avevo detto!”, e magari con tono ancora più fastidioso e pedante vi farà notare che tutto ciò era scritto chiaramente nei termini d’uso dei servizi; quei termini d’uso che avete più volte ignorato e che avete dichiarato più volte di aver letto, mentendo spudoratamente. Ecco, sarà in quel momento, di fronte al notaio che raccoglie le vostre ultime volontà, che direte: “ma perché non ho studiato il principio dell’esaurimento sugli articoli di Aliprandi?! Perché?!?”

Cerchiamo quindi di comprendere meglio le questioni giuridiche sottostanti.

Innanzitutto il principio dell’esaurimento

Sul famigerato principio trovate anche apposita voce di Wikipedia, da cui possiamo estrarre questa definizione: “Secondo tale principio, una volta messo in commercio un bene nel territorio dell’Unione europea, il titolare di uno o più diritti di proprietà industriale su quel bene specifico perde le relative facoltà di privativa. […] Per effetto dell’esaurimento il diritto del titolare non si esaurisce in maniera assoluta, ma soltanto su quel bene specifico, inteso come esemplare del suo prodotto, che sia stato immesso in commercio.

Ve lo spiego con un’immagine abbastanza efficace: nel momento in cui entrate in una libreria e acquistate la vostra copia cartacea di Seta di Baricco, né Baricco né Feltrinelli hanno più alcun poter di controllare quali usi farete di quella copia; potrete farne qualsiasi cosa: tenerla per voi, regalarla, rivenderla a un mercatino di libri usati, utilizzarla per fare spessore sotto la gamba del tavolo, bruciarla nel caminetto a Natale. Certo, non potrete farne copie indiscriminate o digitalizzarla per diffonderla in rete perché sarebbero attività di creazione di nuove copie e quindi coperte dal copyright. Ma quella singola copia, quell’agglomerato di pagine rilegate tra loro, sarà indubbiamente un oggetto di vostra proprietà; e perciò potrete anche lasciarlo in eredità ai vostri figli.

La distribuzione di contenuti creativi nel mondo digitale

Quando ci spostiamo però dal mondo delle copie fisiche verso il mondo delle copie digitali, o addirittura al mondo delle “non-copie” (cioè di copie che rimangono in realtà sui server e che sui nostri dispositivi diventano solo copie temporanee), il principio dell’esaurimento non trova terreno fertile e infatti l’articolo 17 della nostra legge sul diritto d’autore (L. 633/1941) precisa che “non si applica alla messa a disposizione del pubblico di opere in modo che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente, anche nel caso in cui sia consentita la realizzazione di copie dell’opera.

Come spiegavo nel mio articolo del 2014, oggi il focus della diffusione di opere creative si sposta dall’acquisizione di copie all’accesso alla fruizione di opere. Non paghiamo più per diventare proprietari di copie, bensì per avere il permesso di fruire opere, senza diventarne davvero proprietari. Buona parte dei contenuti creativi di cui fruiamo ci vengono forniti dietro licenza, cioè dietro autorizzazione del titolare dei diritti (licenza dal latino licére = permettere, consentire). Come avviene in tutte le licenze (anche quelle “open” tipo le Creative Commons), il permesso concesso è comunque condizionato al rispetto da parte nostra di alcuni termini e risponde a un meccanismo contrattuale; siamo infatti noi utenti ad accettare quelle condizioni nel momento in cui ci registriamo sulla piattaforma e spuntiamo la famigerata schermata “dichiari di accettare i termini d’uso…”. Sì perché quando siamo su una delle millemila piattaforme internet che richiedono una registrazione agli utenti (praticamente tutte) dobbiamo ricordarci che oltre alle norme derivanti dalle leggi (e poi bisogna anche capire le leggi di quale Stato, visto che siamo su internet), dobbiamo tenere presenti anche le norme internet della piattaforma (cosiddetti “Termini d’uso” o anche “Standard della comunità”, secondo la bizzarra denominazione di Facebook), che appunto si basano su un meccanismo contrattuale. Come dite?! È un bel casino? Sì, lo è; benvenuti nel mio mondo di avvocato che offre consulenza e formazione in questo settore.

Una questione non solo giuridica ma anche tecnologica

Per ottenere l’effetto di poter “far scomparire” un ebook o un brano musicale regolarmente “acquistati”, il diritto (copyright + termini d’uso) non è sufficiente. Leggendo la vicenda di Microsoft si capisce che non si tratta solo di una questione giuridica, bensì anche di una questione tecnologica, legata cioè ai formati di file e ai cosiddetti DRM. L’acronimo DRM – ricordiamolo – significa Digital Rights Management e individua tutti quei sistemi software e a volte anche hardware che consentono ai titolari di diritti d’autore di controllare e limitare più efficacemente gli utilizzi delle loro opere. I DRM di fatto consistono in metadati nascosti all’interno dei file e leggibili solo da chi li ha inseriti; e riescono a svolgere la loro funzione poiché buona parte delle opere creative vengono diffuse in formati proprietari e non aperti (classico esempio: il formato .mobi utilizzato da Amazon per gli ebook). Anche il tema dei formati/standard aperti è un mio vecchio cavallo di battaglia e stimola in me la tentazione dell’ennesimo “io ve l’avevo detto!”; ma cerco di contenermi. Lasciate solo che ribadisca il concetto generale: diffondere informazioni e contenuti in formato proprietario consente a colui che “ha le chiavi” di quel formato di poter giocare sporco e di inserire nei file informazioni di cui l’utente non è a conoscenza. Tra cui, appunto, dei metadati DRM.

In conclusione

L’utilizzo dei DRM, aggiunto al meccanismo giuridico illustrato sopra, condito da un bassissimo (quasi nullo) livello di consapevolezza degli utenti in materia fa sì che davvero l’acquisto di ebook, musica e video su queste piattaforme crei solo l’illusione della proprietà e che in realtà si tratti più di una (temporanea e condizionata) locazione.

In altre parole, non avete pagato davvero per avere delle copie, ma avete pagato per fruire di un servizio. Certo, qualcuno fa notare che i DRM possono essere crackati per far sì che la copia rimanga “vostra”; ma la violazione dei DRM è considerata illecita (anche penalmente) e comunque vi siete impegnati contrattualmente a non farlo accettando i termini d’uso del servizio.

 

Articolo sotto licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International.

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Simone Aliprandi ha un dottorato in Società dell’informazione ed è un avvocato che si occupa di consulenza, ricerca e formazione nel campo del diritto della proprietà intellettuale, con particolare enfasi sul mondo delle tecnologie open e delle licenze Creative Commons. Nel 2005 ha fondato il Progetto Copyleft-Italia.it (primo progetto italiano di divulgazione sul tema delle licenze open) e dal 2009 è membro del network di professionisti Array. Svolge costantemente attività di docenza presso enti pubblici e privati, ha all’attivo varie pubblicazioni (tutte rilasciate con licenze libere) e scrive costantemente per alcune testate web oltre che sul suo blog. Tra le sue opere più conosciute "Capire il copyright. Percorso guidato nel diritto d'autore", "Creative Commons: manuale operativo" e "Il fenomeno open data". Sito web: www.aliprandi.org

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