Di Gabrielli, La Polizia di Stato e la deriva della Comunicazione Istituzionale

Sono tempi bui per chi guarda alla parabola discendente della comunicazione pubblica vista dalla prospettiva interpretativa dei social media. Una parabola che se è preoccupante in termini di stile e competenza – oltre che di livello di servizio – quando si parla di INPS, diventa decisamente più grave se ad esserne protagonista è la Polizia di Stato.

Un cambio di rotta per la Polizia di Stato?

Quella Polizia di Stato la cui cifra stilistica nella comunicazione istituzionale on-line (il “tone of voice”, lo chiamerebbero gli esperti) ha subito negli ultimi tempi un profondo cambiamento di rotta. Cambiamento reso evidente nel momento in cui ha scelto di pubblicare gli inquietanti video del pestaggio di Manduria, rispetto ai quali pelose ed inconsistenti appaiono le giustificazioni date di fronte allo sdegno generale (è noto a chiunque se ne occupi che pubblicare atti di bullismo e violenza – in violazione della propria social media policy, peraltro – non serve a sensibilizzare i cittadini, ma genera emulazione creando oltretutto un clima di paura. Di certo la Polizia di Stato non cerca l’emulazione di atti del genere. Resta da chiedersi se cerchi la paura).

Quella Polizia di Stato, però, che se per gli atti di Manduria poteva soltanto essere accusata, volendo rimanere in buona fede, di incompetenza, per quello che riguarda ciò che è successo nella querelle con Saviano è andata ben oltre.

Saviano e la Polizia di Stato: cosa è successo?

Pochi ormai sono all’oscuro dei fatti: Roberto Saviano accusa la Polizia di Stato di essere diventata una Polizia Privata al servizio del Ministro dell’Interno. Un’affermazione forte, discutibile, che può essere o meno condivisa. Un’affermazione – comunque – fatta da un Cittadino che, nei limiti del codice, può dire ciò che vuole (sovente chi scrive, va specificato per correttezza, non è d’accordo con ciò che dice Saviano). Ma Saviano, finché rimane nei limiti del lecito, ha tutto il diritto di affermare qualsiasi cosa. Poi ci sono le opinioni personali, le reazioni, le risposte di altri cittadini. Tutte lecite.

Ma che succede se a fornire una risposta non è un cittadino, ma un’Istituzione?

Peraltro quell’Istituzione di Garanzia dalla quale dipendono i funzionari che di quel cittadino garantiscono, appunto, la sicurezza (cosa particolarmente cogente per quanto riguarda Saviano)?

Che succede se l’Istituzione – non una persona, non qualcuno che esprime un parere – ma un’Istituzione con tutto il suo peso, la sua funzione ed il suo ruolo, per la prima volta da che è presente sui Social Media risponde direttamente ad un cittadino che la critica? Che succede se gli risponde che “chi sbaglia paga nelle forme prescritte dalla legge” e che è una “pena leggere commenti ingenerosi fatti per regolare conti personali”?

Succede che abbiamo un problema

Un problema che non è solo nella comunicazione, ma nella sostanza di ciò che viene comunicato. Un problema che nasce da due fattori che si intersecano pericolosamente e rischiano di produrre i risultati devastanti ai quali stiamo assistendo da tempo, e dei quali quello della Polizia di Stato è solo l’ultimo esempio:

  • La deriva della “comunicazione (politica) POP”in “comunicazione (politica) trash”, in cui la sempre maggior confusione degli ideali e la sempre minor chiarezza delle idee vengono compensate con dinamiche di comunicazione finalizzate a vendere i politici come se fossero fustini di detersivo. Così che va bene tutto, dal #VinciSalvini che mette in palio il Ministro dell’Interno come un Pandoro o un tronista d’altri tempi, all’opposizione che invece di cercare un’identità (anche comunicativa) cerca di inseguirlo faticosamente sposandone la deriva trash e scordando che, in questo tentativo di emulazione, il rischio di scendere al livello dell’avversario ed essere così battuti dalla sua esperienza è tutt’altro che remoto. Una deriva che non riguarda solo la comunicazione politica. Attiene infatti l’utilizzo di termini, parole e linguaggi che sulla base del principio di reiterazione vengono pian piano accettati, spostando sempre un po’ più in là il limite del socialmente tollerabile (del civilmente tollerabile).  Arrivando così dove ogni deriva del linguaggio porta, ossia alla deriva dei comportamenti. Si comincia con la politica che nei comizi parla di “pulizia etnica controllata e finanziata”. E quindi ecco che per emulazione “troia ti stupro” prima o poi non sarà più qualcosa da condannare punto e basta, ma qualcosa che – subdolamente – diventa “da vedere nel contesto”, e quindi “da giustificare”, e quindi “da capire”, e quindi “da condividere” e quindi e quindi e quindi, e quindi da agire. Che poi gli stupri etnici non sono così lontani nella storia. Una deriva del linguaggio che non è certo casuale, e che in questi mesi abbiamo visto pian piano tracimare dalla comunicazione politica alla comunicazione istituzionale.
  • La progressiva scomparsa della differenza tra comunicazione politica e comunicazione istituzionale, appunto. Una scomparsa che non è certo nella sostanza delle cose e nel ruolo profondamente diverso di queste due funzioni, ma nella sensibilità di quei rappresentanti delle Istituzioni che tale differenza dovrebbero conoscerla bene. Già da tempo siamo tristemente abituati a vedere politici che confondono il loro ruolo in quanto rappresentanti di un partito (rispetto al quale non è solo legittimo ma doveroso esprimere il parere di una parte dei cittadini, anche se questo implica essere contro l’altra) con il loro ruolo  in quanto rappresentanti di un’Istituzione (nel quale si rappresentano tutti i cittadini, indipendentemente da ciò che pensano, dicono e votano: e questo vuol dire rispettare ogni singolo cittadino, anche di là  di ciò che esso dice dell’Istituzione che si rappresenta).

Il salto carpiato di Gabrielli

Ma la deriva della Polizia di Stato è un vero e proprio salto carpiato. Va al di là del confondere Comunicazione Istituzionale e Comunicazione Politica. Perché non solo un rappresentante di un’istituzione (e non un politico!) definisce “penose” le affermazioni di un cittadino che (legittimamente) fa delle dichiarazioni. Non solo schernisce chi gli fa notare l’errore definendolo “anima bella e purista della sensibilità”. Ma quel rappresentante delle Istituzioni, che avrebbe sbagliato comunque a fare queste affermazioni, perché la prima cosa che si insegna nelle aule di comunicazione istituzionale è che con le proprie affermazioni – benché personali – si rappresenta la propria Istituzione (specie quando se ne è a capo), va ben oltre. Non si limita a fare dichiarazioni che – visto il suo ruolo – sarebbero state fuori luogo: le fa fare direttamente all’Istituzione che rappresenta.

La nuova linea

E quindi ecco la nuova linea della comunicazione della Polizia di Stato. Che non si accontenta di sposare il trash e pubblicare video vietati dalla sua stessa Social Media Policy con l’obiettivo dichiarato di sensibilizzare ed il risultato effettivo di spaventare e rischiare di produrre emulazione.

Per la prima volta da che è sui Social arriva ad usare questi canali per attaccare e criticare – del tutto al di fuori del suo ruolo istituzionale – opinioni di liberi cittadini.

Non è un particolare che le critiche vengano dall’account istituzionale della Polizia e non da una dichiarazione (che sarebbe stata fuori luogo, ma forse più legittima e meno grave) del Capo della Polizia. Può dispiacermi non essere d’accordo con il Capo della Polizia: mi preoccupa molto – mi spaventa? – che sia la Polizia come Istituzione a esprimere tale disaccordo. Qualcuno potrebbe confonderla con intimidazione.

Né servono da giustificazione le parole di Gabrielli nella tesissima intervista sul Corriere di oggi, nella quale afferma che “quel tweet non appartiene ad un funzionario anonimo sfuggito al controllo dell’amministrazione, ma è stato sollecitato e autorizzato. Se devo dire qualcosa lo faccio in maniera chiara e diretta, senza infingimenti o ipocrisie”.

Anzi: se possibile peggiorano la situazione per almeno due ordini di motivi:

  • In primo luogo è inquietante notare come Gabrielli usi la prima persona riferendosi all’Istituzione che rappresenta. In sostanza lui non ha apprezzato un’affermazione – condivisibile o meno – fatta da un intellettuale dell’opposizione, e quindi questo suo “sentimento” è diventato il parere ufficiale dell’Istituzione. Ufficiale e pubblico, visto che il tweet di Saviano è stato messo letteralmente all’indice tramite l’account twitter della Polizia (per non parlare degli account anonimi a supporto, ma quella vogliamo sperare che sia un’altra storia).
  • In secondo luogo ci sarebbe da chiedersi chi è che ha “sollecitato” l’intervento. È stato Gabrielli oppure altri? Perché nel primo caso siamo di fronte ad un comportamento scorretto, nel secondo di fronte ad un’ingerenza (politica?) che non è solo scorretta, ma allarmante.

Né serve la giustificazione di Gabrielli che afferma di non aver mai ricevuto da Salvini richieste contrarie alla legge. Non ci sono soltanto comportamenti legali ed illegali, ma comportamenti opportuni ed inopportuni. Confondere e sovrapporre legale con opportuno ed illegale con inopportuno, stante peraltro che l’opportunità è molto spesso un concetto aleatorio, ci allontanerebbe dalla definizione di Stato democratico nella quale abbiamo ancora la possibilità di riconoscerci.

Ed è per questo che dobbiamo guardare alla deriva della comunicazione, e soprattutto della comunicazione on-line che ne è il sintomo più evidente, come un segnale al quale stare davvero, davvero molto attenti.

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