L’equivoco della Digital Transformation

C’era una volta l’automazione di processo. Di process automation si parla letteralmente da una vita. Se pensiamo all’informatica possiamo risalire almeno agli anni ’60, con i primi PLC (Programmable Logic Controller). Ma se guardiamo al passato l’automazione dei processi è stata la chimera degli ingegneri di ogni epoca: era il 300 AC quando Ctesibio automatizzò la misurazione del tempo con il suo orologio a cisterne. A pensarci bene, oggi pochi ricordano che lo stesso termine “informatica” deriva dalla contrazione di “informazione automatica”: da sempre proviamo ad automatizzare i processi. Industriali, organizzativi, informativi. Riuscirci, certo, è un altro paio di maniche. Anche perché chi ci ha provato si è reso conto che senza chiamare in causa il principio di indeterminazione di Heisenberg è facile constatare come intervenire sui processi automatizzandoli produca inevitabilmente in essi un cambiamento.

L’informazione, resa automatica, cambia. E per questo qualcuno – da più di qualche anno – parla di process reengineering, ossia reingegnerizzazione dei processi.
Che poi la reingegnerizzazione dei processi nell’informazione automatica è un po’ come dire: “ok, ci siamo sbagliati, non ci eravamo resi conto che se automatizziamo un processo il fatto stesso di renderlo automatico ne cambia la struttura, le dinamiche, i tempi, i risultati”. In altri termini l’impatto delle tecnologie sui processi di gestione automatica delle informazioni (ossia nell’informatica) è tale da produrre un effetto interessante: non ci si può limitare a rendere automatici i processi, ma i processi – resi automatici – vanno ripensati in funzione delle possibilità offerte dal fatto stesso di automatizzarli. Nulla di nuovo sotto il sole, se non fosse che entrando in una qualsiasi azienda o organizzazione, pubblica o privata che sia, ci si rende conto che ancora oggi la confusione tra process automation e process reingeneering non è poca. Insomma: ancora fatichiamo a capire che ruolo dare all’informazione automatica. Pardon, all’informatica.

Ma se noi fatichiamo a dargli un ruolo, l’informatica e le tecnologie informatiche il ruolo se lo prendono da sole. Ed ecco che tutto ciò che possiamo fare è tentare di comprendere e descrivere quello che sta succedendo, attrezzandoci affinché le opportunità non colte non si trasformino in minacce.

Siamo entrati nell’era della trasformazione digitale. Un’era in cui molti, affannandosi a inseguire il cambiamento, non si rendono conto del fatto che è il cambiamento indotto dalla rivoluzione digitale ad averli raggiunti e superati. Un’era in cui il digitale è entrato così profondamente nella società da aver indotto dei cambiamenti che non dipendono dalla volontà della singola azienda o dalle caratteristiche di un mercato, ma che sono globali, complessivi, ineluttabili.

Né più né meno, in fondo, di quello che è successo nel 1800 con il treno. Il treno non ha soltanto reso più veloci le comunicazioni ed i trasporti: ha cambiato il senso delle cose. Ha cambiato l’orizzonte degli eventi della società, le dinamiche politiche, la dimensione sociale, il sistema economico. Nel bene o nel male ha creato un nuovo mondo.

Oggi tutto ciò sta avvenendo di nuovo. Non dobbiamo fare l’errore di pensare che la digital transformation sia semplicemente il risultato dell’applicazione delle tecnologie informatiche all’azienda. Sarebbe un errore fatale, perché la digital transformation ha ben altre dimensioni: riguarda il senso delle cose. È una vera e propria rivoluzione di senso che non attiene il modo in cui le aziende lavorano, ma tocca il perché lo fanno. Non si limita a definire nuovi strumenti, ma tratteggia nuovi scenari e nuovi contesti, economici e sociali. Ridefinisce non solo le regole, ma il modo in cui tali regole vengono concepite e scritte.

Per questo non possiamo permetterci di cadere nell’equivoco per il quale la partita della digital transfomation possa essere giocata sulla dimensione dell’automazione o della reingegnerizzazione: perché presi dal capire come fare ciò che facciamo non ci renderemmo conto del fatto che ciò che stiamo facendo non ha più senso. Un po’ come i famosi pony express del Far West con l’avvento del treno insomma.

E così siamo pieni di organizzazioni che si affannano a automatizzare o reingegnerizzare processi che non servono più perché il mercato è cambiato. Ed il mercato è cambiato perché il mondo è cambiato. E tutto ciò avviene perché spesso, molto spesso, la digital transfomation è anche e soprattutto digital disruption. Non è un cambiamento morbido, progressivo, prevedibile. È un cambiamento discontinuo, spesso esponenziale. Un cambiamento al quale è difficile essere preparati perché si muove in direzioni il più delle volte imprevedibili. Ma che ha un impatto di portata enorme. Sulle aziende, sul lavoro, sulle persone.

Un impatto conseguente ad un cambiamento del quale è inutile discutere l’esistenza. Che è impossibile cercare di ignorare. Che è pericoloso tentare di frenare. Tutto ciò che possiamo fare è agire affinché tale cambiamento produca effetti positivi. Per le persone, per il paese, per la società. Perché se è vero che la digital transfomation è un fenomeno ineluttabile è altrettanto vero che i suoi esiti dipendono da noi. E non è poco.

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