Di donne, digitale, Barbie e numeri sconfortanti

Dare a tutte le stesse opportunità. Per esempio a prescindere dal genere. Questo uno degli obiettivi dell’Agenda 2030. “C’è tempo”, commenteranno alcuni, ma il trend non preannuncia niente di buono.

Gap di genere in IT

Da quest’anno, insieme al DESI, c’è uno specifico indice, “Women in Digital”, che vuole misurare la partecipazione delle donne al settore digitale, sia considerando il tema istruzione che lavoro.

Nelle prime righe del rapporto pubblicato a giugno 2019 si legge: “Sempre meno donne sono interessate a partecipare al settore digitale”. Il gap di genere nella scuola, nell’università, nelle professioni IT è una realtà.

Volendo dare i numeri, si può dire che solo 24 su 1000 sono le donne diplomate in materia TIC, con solo 6 delle 24 che decidono di lavorare nel settore digitale. Numeri in diminuzione rispetto a quelli rilevati nel 2011.

Il perché si studi il “fenomeno” donne come panda in estinzione nell’IT è presto detto: lo stesso studio mostra come un numero maggiore di donne impiegate nel mercato del lavoro digitale potrebbe creare un aumento annuale del PIL di 16 miliardi di euro per l’economia europea.

Quale la situazione in Europa?

La situazione gap di genere non è uguale in tutti i Paesi della UE: proprio come lo scorso anno, ad ottenere il punteggio più alto nella classifica Women in Digitale sono Finlandia, Svezia, Lussemburgo e Danimarca. Maglia nera per Bulgaria, Romania, Grecia e Italia, stabili nell’essere maglie nere dall’anno scorso.

Non consola leggere che il divario di genere esiste in tutti e 13 gli indicatori individuati dall’indice a livello UE, ma con un gap maggiore nelle competenze specialistiche e nell’occupazione nelle TIC. Solo il 17% degli specialisti IT è donna e solo il 34% è laureata in STEM.

Se si va a guardare il gap retributivo, si scopre che le donne che lavorano nel settore TIC guadagnano il 19% in meno rispetto agli uomini.

E in Italia?

Esattamente come per il DESI, l’Italia è quartultima anche nell’indice Women in Digital, con una percentuale di donne italiane che utilizzano Internet pari al 38,5% contro una media europea del 53,1%. Se si va a guardare nello specifico, per esempio, risulta particolarmente bassa la percentuale di donne che usa servizi di online banking: 22 punti percentuali in meno della media UE.

Situazione pessima anche dal punto di vista delle competenze digitali: la percentuale di donne italiane con competenze digitali non arriva al 40% (è il 37,9%), contro un 53,1% della media UE. Una speranza arriva dalle ragazze nella fascia d’età 16-24 anni, che mostra competenze digitali superiori a quelle di base più alta di quella degli uomini.

Se si passa a guardare le lauree in discipline STEM (che contengono però anche i dati di facoltà appetibili per il genere femminile come quelle legate alla cura della persona, ovvero medicina e affini), qui la percentuale arriva all’11,2% di laureate, a fronte di una media europea del 13,1%.

Barbie, il rosa e i role model

Della situazione di disparità, a corrente alternata, se ne parla, pur non sapendo bene come affrontarla nel concreto se non con iniziative isolate, anche di grande valore, che tentano anche nel loro piccolo di migliorare una situazione quasi imbarazzante.

Tra le diverse iniziative a livello internazionale quella di Barbie, che ha voluto dare il suo contributo attraverso il progetto Dream Gap Project, il cui motto è “fornire alle bambine le risorse e il supporto di cui hanno bisogno per continuare a credere di poter essere tutto ciò che desiderano”. Il progetto parte dall’assunto che, a partire dall’età di cinque anni, la maggior parte delle bambine inizia ad auto-limitare le proprie capacità e a dubitare del proprio potenziale, e per questo Mattel mette a disposizione risorse utili a finanziare studi e ricerche sul dream gap. Contestualmente Barbie, da sempre un concentrato di diversi stereotipi e accusata da uno studio americano anche di essere una delle ragioni del far immaginare giochi, lavori o altro dividendoli come “da maschio e da femmina”, si veste da scienziata, come nel caso della Barbie Samantha Cristoforetti, per citare un esempio recente.

Per rafforzare, poi, la diffusione di modelli di riferimento, la stessa Mattel finanzia un bell’allegato a Wired in Italia con storie di scienziate. Un opuscolo fucsia, stampato su carta lucida, in cui tutte le donne intervistate, di grande valore nel settore IT e scienza, sono anche stilizzate come cartamodelli, con tanto di consiglio sul look da scegliere tra gonne lunghe o corte e bigiotteria da abbinare. E qui la domanda nasce spontanea: davvero non possiamo abbandonare questa narrazione che vuole vedere descritte le donne a partire dalla scarpa che portano o dalla tonalità di rossetto che hanno scelto? Vero che questo le rende anche differenti dagli uomini (e la differenza sappiamo tutti essere un valore) ma, forse, negli anni, questo tipo di descrizione delle donne, che mai sarebbe fatta per un uomo, ha svilito più che valorizzato. Tanto vale, allora, magari, provare a cambiare il modo di narrare, no?

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