Design, la capacità di illuminare un pezzo di futuro

Progettare è “illuminare” in modo soggettivo, personale e sintetico un pezzo di futuro; definirlo, raccontarlo, descriverlo in modo tale da attribuirgli consistenza fenomenologica”. Francesco Trabucco, architetto, designer e professore emerito di disegno industriale presso il Politecnico di Milano, sa rendere semplice e comprensibile l’obiettivo di chi si occupa di design. “Come molte altre attività che sono chiamate ad agire direttamente o indirettamente sui prodotti fisici o digitali che siano – spiega Trabucco – il design avrà il compito di accrescerne il valore e renderlo più percettibile. Non bisogna tuttavia dimenticare che il design, insieme ad altre attività, in verità non così tante, è una disciplina esplicitamente progettuale. Progettare vuol dire “gettare avanti”, progettare ciò che non c’è. Allora si può dire che progettare significhi essenzialmente “costruire pezzi di futuro” perché ciò che già esiste non può essere infatti “progettato”, perché sarebbe una specie di paradosso”.

Cosa significa per un designer “costruire pezzi di futuro”?

A supporto dell’intelligenza umana nel futuro ci sarà una nuova intelligenza artificiale, affascinante e rivoluzionaria, che nel 2025 potrebbe superare quella umana, avendo non solo la capacità di riprogettarsi e riprodursi, essendo composta da soggetti strutturalmente capaci di comunicare in tempo reale con tutti i suoi simili artificiali, ma anche di disporre di un patrimonio pressoché infinito di informazioni. Pertanto è necessario progettare il futuro, definirlo mettendo in gioco tutte le competenze tecnico e intellettuali delle quali disponiamo, ma anche le capacità fantastiche e immaginative delle quali il progettista geneticamente dispone. Il design era nato insieme alle macchine anzi era nato per dare forma alle macchine. Queste erano apparati razionali fatti di parti che collaboravano ad espletare la funzione della macchina. L’idea che il design dovesse esprimere tale razionalità era del tutto lecita, quasi implicita con l’idea stessa di macchina: da lì nascevano i concetti di “utile uguale a bello”, ” less is more”. Oggi, invece, una macchina digitale non ha forma, o meglio ha una forma equipotenziale: una scheda elettronica può essere un termostato o una radio, un telecomando o un programmatore; la sua forma non ha contenuti espressivi, non ha una relazione funzionale che ne diventi dettato estetico. Se pensiamo agli smartphone che abbiamo in tasca è necessario riconoscere che, al di là di dettagli, da intenditore sono davvero tutti uguali: sono smart devices che si differenziano per le interazioni e l’ecosistema di servizi che offrono e non per il loro aspetto formale ormai interamente dominato dallo schermo (superficie neutra equipotenziale tutta dedita alla funzione interattiva). Allo stesso tempo invece molti smart products stanno del tutto scomparendo, come dissolti nelle loro funzioni: quando entri in casa e dici “accenditi!” stai cancellando l’interruttore della luce; “quando dici fa un po’ caldo!” stai cancellando il termostato, questa nuova realtà esiste in casa come anche sul tuo corpo indossando i cosiddetti wearable devices. Mi chiedo: quante funzioni saranno contenute in un unico “super device” e magari mascherate in un oggetto che fino ad oggi ci forniva poche ed evidenti informazioni come per esempio lo specchio? Dal precetto razionalista di “la forma segue la funzione” ci stiamo spingendo verso “la forma che non ha più una funzione”. Il domani degli smart products è fatto di interazioni non tattili, quindi la forma diventa un’astrazione, il che rende il tutto forse più complesso. Stiamo vivendo una rivoluzione tecnologica di portata epocale dove l’idea stessa di futuro si sfuma: non solo gli algoritmi elaborati da potentissimi calcolatori sulla base di Big Data governeranno processi decisionali di formidabile impatto per la vita di tutti, ma anche la relazione tra tecnologia digitale e biotecnologie sembra destinata ad essere sempre più stretta, coinvolgendo aspetti cognitivi con implicazioni di natura digitale, che toccano il centro della identità umana, ma anche dove le interazioni tra componenti meccaniche e organiche rendono complicata la definizione di “vita”. Il design dovrà assumere le proprie responsabilità proprio perché, come dicevo, progettare è costruire futuro.

Cosa significa lavorare al design?

Il design è uno strano mestiere davvero, in un mondo popolato di smart products quando parliamo di design intendiamo non solo oggetti fisici ma anche strutture di comunicazione, user experience design, interaction design, elettronica e molto altro, poiché il progetto non è più solo “progetto della forma” ma diventa costruzione complessa che coinvolge tecnologie di processo e di prodotto, risorse economiche, analisi della componentistica, elettronica di sistema, strategie di impresa ed esperienza utente.

Quali le tecnologie di cui si serve il design e che impatto hanno sui suoi risultati?

La qualità di ciò che il design produce è nella qualità della testa del designer; che lavori con un software o un carboncino non fa alcuna differenza; questo è vero però solo in una visione un po’ romantica e autoreferenziale del designer/artista. Nei sistemi complessi con i quali abbiamo a che fare il designer non è più “il designer” ma “i designers”, cioè un team interdisciplinare che collabora al progetto; se non disponesse di tecnologie che consentono di interagire contemporaneamente magari da diverse parti del mondo e di apportare in tempo reale specifici contributi, il progetto non sarebbe realizzabile.

Come si pone il design nei confronti delle nuove tecnologie e che relazione ha il design su tali tecnologie?

Sempre più spesso i prodotti saranno intelligenti, sempre più spesso e più intensamente saranno capaci di riprogettarsi da soli, o meglio, solo facendo riferimento al loro “sapere interno” sarà possibile guidarne lo sviluppo. Sempre più spesso sarà necessario dialogare con gli oggetti che vivono intorno al nostro prodotto per coglierne le complessità d’uso le propensioni di sviluppo, le criticità. Ripensando al team di design allora non ci saranno solo designer, intelligenze umane, ma magari anche intelligenze artificiali come l’IoT.

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