La governance dell’innovazione: come cambiano le imprese?

Vi sono contesti nel mondo dove l’innovazione permea la vita di ogni giorno: penso alla Silicon Valley, ma anche alla Bangalore Valley in India, all’incredibile sviluppo delle startup in Israele, nate a Tel Aviv. In quei contesti il cambiamento si tocca con mano: è visibile nell’architettura, nelle organizzazioni produttive, nelle imprese, nella politica. L’Europa non può ignorare questa forza che viene dai cosiddetti mercati emergenti, mentre sta progressivamente perdendo il monopolio del sapere, della conoscenza. Assistiamo a un declino morale – prima che economico – che ci ha fatto precipitare in una crisi che appare senza via di uscita e che comincia dalla nostra incapacità di governare il pensiero discontinuo, il movimento radon della logica che domina i sistemi lontani dall’equilibrio, fatti di dispersione, polverizzazione progressiva, ma anche di intuizione, velocità cognitiva, multidisciplinarietà.

Se proviamo a fare un viaggio presso la Silicon Valley, a Seattle, a San Francisco, a San Jose, rimarremo colpiti da chilometri di software house che dominano il territorio. Sembra di trovarsi di fronte a un altro mondo. Centinaia di aziende lavorano integrandosi. È un’ulteriore testimonianza del fatto che nella realtà americana l’innovazione tecnologica è il driver di tutto, fa parte della cultura diffusa, è entrata nel tessuto sociale.

Processi di innovazione non più incrementali, ma disruptive, ci costringono in più a un aggiornamento continuo su tutto quello che avviene. Cambiamenti che prima impiegavano anni a raggiungere la nostra realtà oggi in pochi mesi o giorni arrivano a mutare la nostra vita quotidiana, la nostra vita professionale, senza che le nostre sinapsi neuronali si siano ancora accese per capire quello che sta veramente accadendo. In questo contesto abbiamo inoltre un’evoluzione tecnologica che non si ferma e rispetto alla quale spesso non dimostriamo alcuna capacità di governance.

Tutti i mutamenti tecnologici, infatti, hanno grandi ricadute sociali e, se non vengono gestiti o facilitati, rischiano non solo di non essere utilizzati al meglio, ma al contrario creano ancora più disorientamento, paura e senso di inadeguatezza. Qualche anno fa ricordavo in un altro mio libro, Il viaggio delle idee. Per una governance dell’innovazione, che spesso ci troviamo di fronte a un gigantismo tecnologico e a un nanismo culturale.

Se ci chiedessimo come stanno cambiando le nostre aziende, noteremmo come la realtà sia in continua evoluzione. Mentre per anni il modello aziendale ha costituito un mito indistruttibile per tutto ciò che concerne l’organizzazione, ora le aziende prendono sempre più spunto da concetti e da forme organizzative tipici. Già Tapscott e Williams in Wikinomics e in Macrowikinomics avevano parlato di questo, ma oggi termini come empatia organizzativa, business collaboration, community entrano direttamente nel linguaggio aziendale. È ormai appurato che, se non si costruisce un ecosistema in cui coevolvono i nostri collaboratori, i nostri fornitori e i nostri clienti, in futuro – data la complessità del nostro mondo fatto di innovazione tecnologica rapidissima e globalizzazione – non sarà difficile fare business, ma sarà semplicemente impossibile. Ecco quindi che l’azienda, come dicono Tapscott e Williams, sarà costituita da «una serie di ‘reti di capitale umano’ sempre più distribuite – collaborative e basate sull’organizzazione autonoma – che traggono conoscenze e risorse dall’interno come dall’esterno».

Per mantenere la propria competitività globale, bisognerà monitorare gli sviluppi del business sul piano internazionale e attingere a un bacino globale di talenti molto più ampio.

Le alleanze globali, i mercati del capitale umano e le comunità dedite alle peer production consentiranno di accedere a nuovi mercati, idee e tecnologie.

Sarà necessario gestire le risorse umane e intellettuali superando i confini culturali, disciplinari e organizzativi.

Per prosperare, le imprese dovranno conoscere il mondo (compresi i mercati, le tecnologie e le persone).

Quelle che non lo faranno si troveranno menomate, impossibilitate a competere in un mondo del business che sarà irriconoscibile in base agli standard attuali.

Per fare tutto questo, sottolineano sempre Tapscott e Williams, ha senso non limitarsi a pensare globalmente, ma è necessario agire globalmente. I manager che operano in prima linea si stanno rendendo conto che l’azione globale rappresenta una sfida operativa molto complessa, specie quando si è sommersi da una coltre di sistemi e processi ereditati dal passato.

Come dice Alec Ross, “una grossa fetta del Pil del mondo si è spostata nella Silicon Valley grazie alle piattaforme come Uber, Airbnb ecc. La Valley è diventata ricca come l’antica Roma. Raccoglie tributi da tutte le sue province. Il tributo è il fatto che il business di queste piattaforme appartiene a lei. Gli annunci economici che un tempo comparivano nelle pagine dei giornali cittadini oggi vanno su Google, Pinterest sostanzialmente rimpiazzerà le vendite tramite rivista, ora Uber domina i trasporti”.

Dobbiamo dunque conoscere questa globalizzazione e i processi che la attraversano, ma come? Quale metodo adottiamo? Forse ha ragione Michel Serres, dal metodo non nasce niente, e cita il geniale Hergé: “Comincio da un punto qualsiasi e tutto cresce come l’edera“.

Ormai l’organizzazione assomiglia a un organismo ad alto livello di complessità, in cui le singole parti (strutture, ruoli) sono sistemi aperti che svolgono funzioni specializzate ma anche funzioni in base ad ambiti di autonomia, sono collegate in una rete di scambi informativi ed economici e interagiscono tra loro sulla base delle regole del gioco, influenzate anche da loro stesse: esse si modificano sia per processi di adattamento all’ambiente esterno sia per input interni.

Gli uomini sono risorse del sistema, non sole risorse da utilizzare; il rapporto tra attore e sistema è definito da una continua dialettica tra cooperazione e conflitto, fra partecipazione e distanza. Competenza e managerialità sono interne al modello.

Di conseguenza il passaggio da un’azienda che produce per vendere nel modo più efficiente possibile (make and sell) a un’azienda sense and respond che percepisce e quindi reagisce comporta un cambiamento di assunzioni e di obiettivi. Nel primo caso si parla di cambiamenti predicibili, nel secondo caso di cambiamenti non predicibili. L’obiettivo per un’azienda sense and respond è diventare un’azienda adattiva.

Dicevamo, quindi, che le imprese adattive sono consapevoli del fatto che i cambiamenti derivanti dall’ambiente circostante non sono prevedibili. L’azienda che si presenta lenta nel modificare le sue strategie e i suoi processi operativi perderà quote di mercato e rapidamente si estinguerà. Se partiamo dal presupposto che vi sono milioni di variabili correlate e che ognuna di esse può modificarsi in qualunque momento, è necessario che le organizzazioni siano in grado di adattarsi a questi continui cambiamenti. L’organizzazione adattiva ottiene benefici quando la membrana che la circonda è permeabile, come in una cellula vivente. Anche il confine di un’organizzazione deve essere abbastanza permeabile da lasciar entrare le informazioni di cui ha bisogno, altrimenti la persona (la cellulla) non sarà in grado di agire come richiesto dal sistema e l’organizzazione (il corpo) ne risentirà.

La adaptive enterprise deve essere attenta nel percepire sviluppi che possono dar luogo a nuove competenze. È un’azienda proattiva che investe per raccogliere e interpretare dati in merito a cambiamenti nelle preferenze dei clienti, come Amazon per esempio, che spesso arriva a conoscere le preferenze dei suoi clienti prima di loro stessi.

La capacità di sintesi e di dare ordine alle idee si trasformano in capitale intellettuale, aumentando l’adattività dell’azienda all’ambiente. Il sapere e il know-how accumulati da un individuo sono fonte di innovazione ma sono soggetti a una rapida fase di dispersione se non adeguatamente coltivati. Ecco che la fase di diffusione, di circolazione, ricombinazione, come direbbe Ikujiro Nonaka, rappresenta il miglior utilizzo dell’intelligenza all’interno del sistema.

Il capitale umano, però, deve essere adeguatamente supportato e integrato al capitale strutturale dell’organizzazione, che diventa il contenitore dei processi.

Il capitale strutturale deve quindi essere in grado di amplificare ciò che viene prodotto, deve far sì che le conoscenze, l’uso creativo, le esperienze formative trovino necessario risalto, una rapida condivisione e una crescita collettiva.

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Roberto Panzarani è docente di Innovation Management. Studioso delle problematiche relative al capitale intellettuale in contesti ad elevata innovazione e autore di svariate pubblicazioni. Da molti anni opera nella formazione in Italia. Esperto di Business Innovation, attualmente si occupa dello sviluppo di programmi di innovazione manageriale per il top management delle principali aziende e istituzioni italiane e internazionali. Viaggia continuamente per il mondo, accompagnando le aziende italiane nei principali luoghi dell’innovazione dalla Silicon alla Bangalore Valley, all’Electronic City di Tel Aviv, ai paesi emergenti del Bric e del Civets. L’intento è quello di facilitare cambiamenti interni alle aziende stesse e di creare per loro occasioni di Business nel “nuovo mondo”. L’ultimo suo libro è “Viaggio nell'innovazione. Dentro gli ecosistemi del cambiamento globale”, Guerini e Associati, 2019.

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