Open Source Strategy: sono solo parole?

We want to bring Europe’s people together in an inclusive, open approach, to find new opportunities and transition to an inclusive, better digital environment that is ready for the realities of today’s global economy. In all of this, open source software has a role to play”. Inizia con questa frase il documento, pubblicato la scorsa settimana dalla UE, contenente la “Open Source Strategy” dei prossimi tre anni. Documento atteso da circa tre anni, ovvero da quando nel 2017 era “scaduto” il precedente documento strategico. Open source considerato centrale, importante sia in termini di sostenibilità che di opportunità. “Un buon modo di investire denaro pubblico”, di promuovere la libertà e l’indipendenza tecnologica, di semplificare l’utilizzo e il riuso di soluzioni software che possano “creare valore transfrontaliero grazie alla interoperabilità”.

Un condensato di buone ragioni per scegliere open source, non solo in pubblica amministrazione. E un condensato di buone intenzioni rispetto al rafforzarne la diffusione.

Think Open”, una necessità

Se c’è una frase che ricorre in tutto il documento è proprio il riferimento alla necessità di “pensare in modo open”. Un qualcosa che, secondo la UE, si può tradurre nel “preferire le soluzioni open source se equivalenti in funzionalità, costo totale e sicurezza informatica”. E questo, in Italia, ricorda molto un paio degli articoli più disattesi del Codice di Amministrazione Digitale, ovvero il 68 e 69 che imporrebbero la scelta di soluzioni libere alle PA.

Ma la UE aggiunge che la “Commissione contribuisce all’open source” e questo “si riflette nella sua strategia digitale, che incoraggia la comunità IT a sfruttare il crescente potenziale di open per unire le forze con i principali attori e comunità commerciali e mobilitare la co-creazione di competenze utili a sostenere le direzioni generali nella ricerca di nuove soluzioni”. Al di là delle “buone intenzioni”, a livello di azione, il documento riporta come “il modo migliore per guidare altri sia il dare l’esempio. Tanto che la strategia produrrà rapidamente prove tangibili dei vantaggi di una cultura del lavoro basata su principi open-source semplificando le regole sulla condivisione Software della Commissione e contribuendo a progetti open source”.

E a parte le buone intenzioni?

Il documento sottolinea come “per assicurarsi che queste azioni siano eseguite in modo organizzato, coordinato e programmato, la strategia istituisce un piccolo ufficio del programma. Un piccolo ufficio. E oltre questo “collaborerà a progetti, con esperti in materia, per incoraggiare l’organizzazione nel suo percorso verso una cultura del lavoro open source”.

“Ciò che la Commissione europea ha presentato è semplicemente troppo poco per una strategia” – dicono dalla Free Software Foundation Europe. “Mancano metodologie, processi chiari che indichino i ruoli dei diversi soggetti coinvolti e le linee guida concrete per l’implementazione degli obiettivi enunciati. Mancano gli indicatori per monitorare il successo delle azioni messe in campo. Inoltre, manca l’elenco dei limiti e dei problemi attuali legati alla diffusione dell’open source e il modo in cui affrontarli concretamente, come ad esempio i lock-in da singoli fornitori. Non sorprende quindi che anche la stessa Commissione, nel documento, esprima dubbi sul successo della propria strategia e individui difficoltà nella sua attuazione. Si legge infatti “Correttamente attuata (sic!, ndr), la strategia e i suoi principi guida ci aiuteranno a costruire e fornire migliori soluzioni e servizi ICT”. Pertanto è oggi più che mai importante continuare a monitorare criticamente il lavoro della Commissione e promuovere il progetto che abbiamo lanciato tempo fa “Public Money?, Public Code!” che vuole fare in modo che il Software Libero diventi lo standard per il software finanziato con fondi pubblici. Le pubbliche amministrazioni che seguono questo principio possono, infatti, beneficiare di numerosi vantaggi: collaborazione con altri enti governativi, indipendenza dai singoli fornitori, potenziale risparmio fiscale, promozione dell’innovazione e una base più solida per la sicurezza informatica”.

Una “foglia di fico”, insomma, secondo FSFE visto che il solo ricordare l’importanza del “Think open”, senza obiettivi verificabili e misurabili, sia un qualcosa destinato a restare un “sono solo parole”.

Quale la situazione sulla scelta di open source in Italia?

Con l’ultima formulazione degli articoli 68 e 69 del Codice per l’Amministrazione Digitale, la pubblicazione a maggio 2019 delle Linee Guida Agid su Acquisizione e Riuso di Software per la PA e con i principi guida del Piano Triennale per l’Informatica nella PA 2020-2022, l’adozione di soluzioni Open Source è diventato un preciso indirizzo di politica industriale”. Stefano Paggetti, Senior IT Business Analyst AgID che ha seguito da vicino la riscrittura delle linee guida sul riuso del software, è ottimista.

L’art 68 – continua – prevede che le PA debbano privilegiare l’adozione di soluzioni open source a partire da quelle di proprietà della PA stessa. L’art 69 obbliga le PA a pubblicare il codice di loro proprietà in repository aperti e liberamente disponibili. L’idea di fondo è che la spesa ICT della PA è un investimento che deve rimanere nel pubblico dominio per favorire la crescita e lo sviluppo del mercato digitale necessario ad accompagnare la trasformazione digitale della Società, a partire dalla Pubblica Amministrazione. A questo proposito è utile ricordare la dichiarazione di Tallin del 2017 che testualmente recita “…[The Member States call upon] the Commission to consider strengthening the requirements for the use of open source solutions and standards when (re)building of ICT systems and solutions takes place with EU funding, including by an appropriate open licence policy — by 2020…”. Il codice deve quindi essere un asset da patrimonializzare a disposizione di tutti perché gli investimenti finanziati con risorse pubbliche devono essere a disposizione di tutti, nessuno escluso. Negli ultimi 25 anni, il Software Libero ha trasformato il settore ICT. Da movimento informale e bandiera ideologica contro le soluzioni proprietarie è diventato il protagonista indiscusso dell’innovazione e della trasformazione digitale in un mercato ICT che in Italia è di circa 40 miliardi di euro l’anno, al netto dell’informatica di consumo che ne vale altri 30, in cui la spesa della PA, sanità inclusa, è di circa 6 miliardi”.

Resteranno solo parole?

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