La Società Aperta e i suoi virali nemici

Nel 1945 Karl Popper, all’indomani della più sanguinaria e crudele guerra del mondo, scriveva quello straordinario libro che è “La società aperta e i suoi nemici”, invocando la realizzazione di una società aperta a più valori, a più visioni del mondo come antidoto ai totalitarismi che avevano intossicato e insanguinato il mondo.

Una società della condivisione, dell’incontro, della pluralità come base costitutiva di una rinnovata democrazia che avrebbe dovuto combattere qualsiasi nuova tentazione autoritaria e violenta. E qualche anno dopo Hannah Arendt (Cos’è la politica?) rafforzava il concetto attribuendo alla città, ai suoi spazi pubblici, ai suoi luoghi di incontro (e scontro) il ruolo di spazio costitutivo della società aperta, di matrice dalla pluralità delle idee, della tolleranza e dell’eguaglianza. L’uomo, infatti, è un essere democratico solo se esce dallo spazio individuale e si confronta nello spazio plurale. La società aperta, la società sinceramente democratica non si costruisce entro i luoghi domestici (dove si coltiva l’individualità), ma si compone nello spazio fra di noi”, rifiuta la partigianeria delle tribù e predilige la complessità delle comunità.

Karl Popper elencava tra i nemici la cieca fiducia nella crescita infinita senza limiti né rispetto, nello scientismo senza fondamenti scientifici, nell’arroganza della conoscenza elitaria, ma mai avrebbe pensato che oggi il nemico più implacabile della democrazia sarebbe stato un microscopico virus. Un virus che, proprio la società aperta dell’urbanizzazione espansiva e della globalizzazione imperante hanno scalzato dal suo ecosistema silvestre per infettare la nostra società, il nostro modello di vita, la nostra stessa democrazia della compartecipazione.

Oggi, che per contrastare il drammatico contagio del COVID-19 siamo tutti costretti a rimanere dentro i nostri spazi domestici, dobbiamo approfittare per riflettere sul dilemma della società aperta: la neghiamo per curarci ma la dobbiamo invocare per riprenderci e per generare i nuovi anticorpi. Ci chiudiamo per sopravvivere, ma non possiamo vivere reclusi. Ci distanziamo per curarci, ma ci aggreghiamo digitalmente per reagire.

Lo so che sentiamo pungente la mancanza delle relazioni sociali, della vita negli spazi pubblici, dell’incontro (e non è solo nostalgia della movida). Mentre rimaniamo a casa (e lo dobbiamo fare), mentre troviamo rifugio nello spazio domestico, dobbiamo cominciare a pensare, quando ne usciremo, come rimettere in moto la macchina della democrazia aperta, per riattivare le città come potenti generatrici di libertà, diritti, uguaglianze, cultura perché sono luoghi della pluralità e della relazione: un sistema di individui sociali che escono dalla propria tribù e si rapportano con il ricco tumulto della comunità.

Tuttavia, questo microscopico nemico della società aperta, quando lo avremo sconfitto interrompendo il contagio con la nostra resistenza domestica, ci lascerà un insegnamento: dobbiamo rivedere il nostro modello di sviluppo, i nostri stili di vita, le nostre posture di consumo, proprio a partire dalle città, dalle megalopoli come Wuhan alle città medie come le nostre. Una vera società aperta non può essere più una società ciecamente espansiva, predatoria, famelica consumatrice di suolo, ecosistemi e risorse. Non possiamo essere una società umana cannibale delle altre specie viventi. Una vera società aperta deve essere invece attivamente responsabile e creativamente sostenibile. Una nuova “Società Aperta Postpandemica” deve plasmare il suo spazio in maniera diversa, ricordando che il vero spazio fra noi” non è solo quello tra noi umani (importante e da ripensare), ma anche quello fra gli umani e i non umani. Solo tornando ad avere rispetto – e timore – della natura potremmo tornare a coltivare la nostra umanità. La società postpandemica dovrà essere circolare, esercitando la sua potente intelligenza digitale, guidando equamente la propulsione economica, garantendo la salute pubblica, generando creatività e metabolizzando la sostenibilità ecologica.

Quando torneremo ad animare le nostre città, quando torneremo a parteggiare per le nostre idee confrontandole con quelle degli altri cittadini per comporle nell’interesse collettivo, quando torneremo ad abbracciarci, quando torneremo nelle piazze, nelle scuole, nelle università, nei luoghi della cultura e del lavoro, non dimentichiamo la lezione di questa sospensione forzata della nostra urbanità”, non dimentichiamo la dolorosa nostalgia per lo spazio pubblico, per lo spazio urbano. Soprattutto non dimentichiamo la nostra responsabilità nella apertura dei vasi di pandora degli ecosistemi naturali devastati. La nostra società aperta – solo temporaneamente rinchiusa a casa – sconfiggerà il suo microscopico ma potente nemico e tornerà più forte grazie alla resilienza che avremo imparato a esercitare in questi giorni drammatici e che sapremo trasferire nei nostri nuovi comportamenti a prova di pandemia.

La città è stata l’innesco della pandemia virale, la città deve essere l’antidoto di una necessaria democrazia ambientale.

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