Ripensare le città con l’edilizia sostenibile: la sfida di Daniela Ducato

Daniela Ducato quando parla di sostenibilità è un fiume in piena. O forse, come preferirebbe essere definita, un mare in continuo divenire: una marea che raccoglie, unisce, crea, trasforma, rigenera e lascia andare all’infinito.

Ducato non ha bisogno di grandi presentazioni: Cavaliere della Repubblica per meriti ambientali, è considerata a livello internazionale una delle donne più influenti nel settore dell’innovazione nella Green Economy, con decine di riconoscimenti e premi internazionali che vanno da quello del Women Economic Forum, a quelli della rivista Fortune e del New York Times, che ha inserito le sue produzioni tra le migliori 10 al mondo capaci di salvaguardare il pianeta. Daniela Ducato, quale portavoce di una filiera industriale di economia circolare, la Edizero Architecture for Peace, specializzata nello sviluppo di prodotti ad altissimo valore tecnologico e innovativo nei settori dell’edilizia sostenibile, dell’ecodesign, della tutela del suolo e del disinquinamento del mare, ha proposto centinaia di soluzioni negli anni create da scarti biodegradabili (come lana, canapa, sughero, vinacce). “Rifiuti” che lei preferisce chiamare “eccedenze preziose” da fonti rinnovabili, capaci di garantire l’assenza di sottrazione di suolo e risorse idriche e di non entrare in competizione con la produzione di cibo.

Iniziamo la conversazione con lei, da una nota personale, ovvero dal Goal 5 di Agenda 2030 riferito al Gender Gap, per chiedere quanto possa essere stato difficile per una donna affermarsi in questo settore. “Il mondo dell’edilizia – afferma Daniela Ducato – è forse il settore più maschile che esista, in tutte le sue filiere. Ma a parte il breve periodo in cui ho insegnato, nel quale non ho mai sentito delle differenze discriminanti nell’esser donna, penso comunque che alcune difficoltà le avrei incontrate in qualsiasi settore lavorativo. Non è tanto questione di settori, quanto di dimensione culturale del contesto in cui si opera. Quindi, semplicemente, sono cresciuta con la consapevolezza che, rispetto agli uomini, avrei dovuto affrontare tutto portando sulle spalle uno zaino di 10 kg, a volte anche di 20. Ma questo non è mai stato un freno nel raggiungimento degli obiettivi che mi sono prefissata. Certo, servono pazienza, tenacia, capacità di fissare obiettivi e darsi da fare per raggiungerli senza sprecare energie. Appunto: “non sprecare” è sempre stata una disciplina, un vero e proprio mantra della mia filosofia di vita. Non sprecare intelligenza, tempo, risorse, acqua. E non sprecare quell’impegno che, spero, possa aiutare le donne nell’affermarsi”.

In che modo le tecnologie, digitali e non, hanno contribuito al cambiamento del settore negli ultimi anni?

“Oggi non si può immaginare un materiale trasformato, innovativo e privo di inquinanti senza l’apporto della tecnologia, e in particolar modo del digitale. Industria4.0 ci permette di abbattere costi di energia e trasporto, di non generare scarti o sovrapproduzioni, di realizzare prodotti freschi di alta qualità senza bisogno di aggiungere additivi. Abbiamo la possibilità di avere trasparenza e tracciabilità di ogni ingrediente per ciascun prodotto. Con l’Intelligenza Artificiale possiamo rivoluzionare completamente il sistema produttivo, e possiamo avere uno stabilimento che, grazie al risparmio energetico, funziona anche con soli 5kw (praticamente come un’abitazione) facendo così industria pulita. Non parlo di teoria, ma di come facciamo già oggi nelle filiere Edizero. Va evidenziato con forza che oggi, senza trasformazione digitale, non sarebbe possibile ottenere risultati di sostenibilità. Quella sostenibilità che non è solo una sostenibilità ambientale ed etica ma è anche una sostenibilità economica. Il paradosso che mi colpisce è che questo aspetto, questo ruolo del digitale, spesso viene rimosso. Quasi si vuole negare. Mi capita spessissimo che durante convegni ed interviste mi viene praticamente chiesto di omettere questa parte di racconto. Non capisco perché non piaccia o interessi poco. In pratica se racconto di quali materiali è fatto un prodotto, materie prime sostenibili, scarti, eccedenze, questo scatena slanci di entusiasmo, sorpresa e ammirazione, ma se poi vado a raccontare che per ottenere questo risultato si ha bisogno delle tecnologie digitali, questa parte invece viene praticamente ignorata. Come se il racconto perdesse di fascino, anziché essere arricchito. Come se si togliesse valore alla storia, anziché arricchirla. Questo è un pregiudizio che va assolutamente cancellato, e per farlo dobbiamo essere in tanti a parlarne. Per questa ragione il libro Sostenibilità Digitale mi è sembrata una vera benedizione, perché ci aiuta a poterlo dire spiegandone i motivi. Dobbiamo superare questa narrazione e quest’idea così nostalgica di ecologia che fa quasi rima con tribale. Non capisco perché si debba tentare di spogliare la sostenibilità dell’innovazione tecnologica, mentre le due cose sono inscindibilmente correlate. Negare questo fatto significa, per me, in qualche modo togliere l’anima ai materiali, se di anima dei materiali si può parlare. Poterne parlare significa invece restituire concretezza a concetti che altrimenti sarebbero del tutto astratti. Abbiamo bisogno di moltiplicare le voci e far dialogare i mondi dell’ambientalismo e dell’innovazione tecnologica. Abbiamo bisogno di una coralità di voci per dire sempre meglio che oggi, nel 2020, senza tecnologia digitale non può esistere sostenibilità”.

UN-Habitat, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di sviluppo urbano sostenibile, ha dichiarato che l’edilizia abitativa pone molte più problematicità dell’industria automobilistica e del settore zootecnico rispetto al cambiamento climatico, e ha prescritto di investire in “case verdi” o ecologiche con l’uso di nuovi materiali sostenibili e ad alta efficienza energetica. C’è percezione nelle persone del ruolo dell’edilizia sostenibile nella salvaguardia nell’ambiente? E c’è stato un cambiamento in questa direzione nella sensibilità di chi costruisce?

“In Agenda 2030 sono declinati molti dei diritti dell’uomo, in cui la salvaguardia ambientale fa da filo conduttore ad una sostenibilità che sia anche economica e sociale. Tra questi anche quello di poter vivere in ambienti salutari: ricordiamo cosa sono stati in molte zone del mondo i quartieri del cancro. Ambienti che abbiano oggi e nel futuro un impatto sempre minore sull’ambiente, sia in termini di emissioni di anidride carbonica che di smaltimento a fine vita, perché non si tratta solo di un problema di impatto ambientale, ma anche economico. Sappiamo bene quanto costi oggi lo smaltimento e il recupero di una demolizione di materiali non ecocompatibili, ma se fino ad oggi non ci siamo preoccupati del futuro e di cosa lasceremo alle generazioni future, Agenda 2030 è invece la via per ricordarcelo. La sostenibilità edilizia quindi sarà un elemento fondamentale per il raggiungimento di molti degli sdgs, visto che proprio Nazioni Unite in un recente report hanno dichiarato che nei prossimi 30 anni sarà costruita la metà del patrimonio edilizio mondiale, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Proprio in questo momento, in cui le persone stanno sviluppando maggiore consapevolezza sulle “case ecologiche”, serve fare grande attenzione. Perché verde, green, ricliclato, sono parole abusate e di grande moda, che in realtà definiscono materiali che spesso nulla hanno davvero a che fare con la sostenibilità. Mille aggettivi e mille sostantivi che fanno tanto storytelling, vestendo di verde materiali inquinanti e petrolchimici. È necessaria una rivoluzione delle parole. Abbiamo bisogno di ritrovare l’essenza delle parole e abbiamo bisogno di numeri, e di rivoluzionare i nostri contenuti, facendo guerra al greenwashing. Perché un bel racconto lo possono fare tutti, ma abbiamo bisogno di numeri che raccontino la verità. C’è anche un problema di normative a livello europeo, e sarebbe invece necessario avere un cambio di passo. È inaccettabile che materiali energivori costituiti da polimeri petrolchimici diventino ingredienti primari con appena un’aggiunta del 2% di un materiale riciclato. Questa metamorfosi che li trasforma in prodotti green riciclati e falsamente ecocompatibili danneggia tutti, perché tali non sono, ne per l’impatto che hanno in produzione né per lo smaltimento a fine vita. Oggi però, sempre grazie alle tecnologie digitali, è più facile informarsi e cercare di districarsi in questa matassa di informazioni. Ed in questo anche le istituzioni locali possono fare molto e avviare processi virtuosi, per esempio inserendo negli appalti pubblici verdi (GPP) chiari elementi di edilizia sostenibile, che non siano legati solo a criteri economici ma seguano criteri di salubrità dei materiali e ne misurino l’impatto a fine vita. Certo, oggi non abbiamo a disposizione un catalogo di materiali 100% green. Solo dove non si trova una soluzione completamente ecocompatibile, allora occorre avvalersi di materiali e prodotti cosiddetti di “transizione ecologica”, rispetto ai quali i principi di valutazione sono relativi soprattutto all’impatto ambientale dei sistemi di produzione. La speranza è che con la ricerca e l’innovazione un giorno si possa raggiungere l’obiettivo di avere solo materiali del tutto ad impatto zero”.

Finora la bioedilizia ha rischiato di essere appannaggio, visti i costi di alcune soluzioni, di chi può permettersela. È ancora così o si può affrontare con costi paragonabili a quelli dell’edilizia tradizionale?

“Se parliamo di sostenibilità, questa deve esserlo a 360 gradi: non può esistere una sostenibilità ambientale se non c’è allo stesso tempo una dimensione etica e se entrambe non consentono sostenibilità economica. Anche perché se pensi di produrre un prodotto esclusivamente per ricchi, questo non può certo dirsi sostenibile, potrà anche essere ecologico, ma non sostenibile. Diviene sostenibile invece se anche la parte economica contiene in sé quella che io definisco democrazia dell’acquisto. Tutti cioè devono poterlo acquistare, perché deve essere di tutti la possibilità di poter vivere in ambienti più salutari e che impattino il meno possibile sull’ambiente. E come si ottiene la democrazia dell’acquisto? Grazie alle tecnologie e all’Industria 4.0: perché se riesco a produrre con solo 5kw, localmente, non ho scarti, ho tutta un’ottimizzazione della filiera, allora è chiaro che riesco anche ad avere una sostenibilità economica che mi permette di immettere sul mercato un prodotto ad un costo assolutamente accessibile ed equiparato ai prodotti di natura petrolchimica”.

Molte attività di Daniela Ducato ruotano intorno al Goal 11 ben prima che esso fosse soltanto immaginato. A guardare alle sue esperienze non solo imprenditoriali, ma anche e soprattutto sociali, sembra proprio di effettuare una rilettura dei target del Goal 11: rinforzare i legami con i territori, le scuole e le istituzioni per cercare diffondere consapevolezza e cultura sulla sostenibilità, sviluppare comunità partecipative con progetti di recupero di aree degradate destinate a diventare aree verdi fruibili, costruire spazi culturali inclusivi con particolare attenzione ai più vulnerabili: donne, bambini e anziani; tutto è stato orientato alla costruzione di quelle comunità sostenibili e resilienti postulate dal Goal 11.

Oggi più che mai la fragilità e le conseguenze dell’alterazione degli ecosistemi che ci circondano hanno effetti drammatici sulle nostre vite. Il Coronavirus, molto più rapidamente rispetto al cambiamento climatico o la perdita di biodiversità, ci ha messo di fronte a scenari che mai avremo immaginato fino a pochi mesi fa. Abbiamo l’opportunità di mettere in discussione il sistema economico lineare, e capire che avviare produzioni senza sottrarre risorse al pianeta è possibile: Agenda 2030 ne è un faro, la trasformazione digitale uno strumento imprescindibile, l’esperienza di Daniela Ducato la prova concreta che, volendo, si possa fare.

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