Pensa impossibile, pensa sostenibile

In occasione della 61° edizione del Salone del Mobile e sulla Settimana del Design 2023, tutto il mondo del design è tornato a Milano, portando energie ed effervescenze mischiate ad un mix di creatività ed innovazione

Per tutto il mese di maggio si sono inseguiti i commenti soddisfatti di organizzatori e operatori sulla 61° edizione del Salone del Mobile e sulla Settimana del Design 2023. Perché tutto il mondo del design è tornato a Milano, portando energie ed effervescenze: l’Europa in maniera capillare; l’Asia, che non si vedeva da tempo, non solo con la Corea ma anche con la Cina e l’India; e poi le due Americhe, l’Australia e il Nord Africa. I numeri? Molto, molto confortanti: 2000 espositori, più di 300mila visitatori, più di 5mila giornalisti accreditati.

Il Salone del Mobile e la Settimana del Design sono una centrifuga creativa ed emozionale. Ognuna delle sue componenti (Salone Ufficiale, Design Districts, Fuori Salone e Salone Satellite) meritano un’attenzione dedicata per estrarne senso e prospettive.

Mi concentrerò sulle proposte del Salone Satellite dove si disegna il futuro o meglio, vista l’accelerazione dei tempi, il veloce presente. Sotto la guida consapevole di Marva Griffin, fondatrice e curatrice e di Paola Antonelli del Moma di NY, presidente da 12 anni della Giuria del Salone Satellite Award, evangelizzatrici convinte della pastorale globale della sostenibilità.

Le due hanno chiesto ai giovani designer di confrontarsi con nuove emergenze: la vulnerabilità dell’ecosistema, la crisi delle tradizioni artigiane, la difficile integrazione tra culture nelle megalopoli omogeneizzanti, la progressiva perdita di linguaggi creativi indigeni. Quest’anno hanno alzato l’asticella chiedendo ai singoli, ai collettivi, alle scuole di realizzare l’(im)possibile: il “design thinking” deve dimostrare di saper dare risposte vitali alle nuove emergenze.

Per l’Italia c’è anche un’altra vitalità imprescindibile in tempi di ripresa: quella economica. Il settore del design muove oltre 40 miliardi di euro con ricadute energizzanti su tutti gli altri settori.

Tassisti e Designer

È la vigilia del salone 2023: chiamo un radiotaxi a Milano, chiedendo se è possibile prenotare un’auto per la mattina dopo, alle 9. Risposta negativa. Come, nella capitale italiana dell’efficienza non è possibile programmare?! Sì, ma non alle 9. Turno pieno, ma alle 8.55! Ah, ecco: non avevo formulato la domanda nella maniera giusta … La mattina dopo, mi preparo per tempo a scendere, ma torno indietro per recuperare il pass stampa. Quando apro la porta del taxi sono le 8.59. Saluto, il tassista mi risponde ma batte col dito sull’orologio e un’espressione di muto rimprovero …Dove andiamo? A Casa Nervesa, gli chiedo un attimo per dargli l’indirizzo preciso. Mi dice che non c’è bisogno: “era la casa di mio nonno …”. Sorpreso, chiedo dettagli. “Come, non ha da pistolare sul telefono come tutti i clienti degli ultimi dieci anni?! – mi chiede con tono sarcastico- Le interessa davvero sapere qualcosa del posto dove sta andando?” Il trasferimento urbano si annuncia non banale.

Dunque, il nonno del tassista ci passava la giornata perché lavorava nel settore dei tessuti e casa Nervesa era la sua sede di lavoro; e gli raccontava di quando in precedenza era stata la stazione di posta dei tram a cavalli di Milano: “con la prima linea Milano-Monza!”.

Il taxi accosta vicino a una singolare costruzione dalla facciata Liberty, faccio per scendere: “No, non è casa Nervesa, è l’ex cinema Dupont la prima sala cinematografica di Milano. Poi autosalone, poi rimessa delle ambulanze, oggi biblioteca comunale … ho pensato le interessasse vederla. Lei non sembra uno della banda dei fighetti …El gh’ha el dun de Dio de capì nagott”. Traduce per le mie orecchie di forèst: hanno avuto da Dio il dono di non capire un caxxo! E chi sarebbero questi fighetti? “Ma i designer, no? Prosperano più della gramigna …”.

Singolare questo tassista; mi spinge alla provocazione. Gli chiedo perché ce l’ha tanto con i designer … Anche lui denota un’attitudine da designer in fondo! La reazione è immediata e con un livello di decibel tenorile: “Miii?! Io non vado a scuà l mar cun la furchèta …”, segue anche un invito a dar via il cul, non si sa se indirizzato alla citata categoria o a me; o a entrambi. Sorvolo e ascolto la spiegazione di tanto astio: una storia di servizi di trasporto resi e non pagati (per due mesi, lader!) da una società di design sparita nel nulla dalla sera alla mattina. No, lui non ha niente a che fare con questa categoria di scopatori del mare che non pagano il lavoro degli altri! Lui è uno corretto: non vedo che ha bloccato il tassametro, perché la nostra conversazione non entri nel conto?!

Sì, notato e apprezzato. Gliene do atto mentre insisto nella provocazione rimarcando che è un designer, a sua insaputa. Prima che ripeta lo stentoreo e scandito invito a dar via il … lo blocco con un gesto della mano che vuole dire: tranquillo, ora mi spiego.

E spiego: designer non è soltanto chi disegna oggetti conciliando estetica e funzionalità, ma anche chi riprogetta un qualsiasi aspetto della quotidianità per migliorare la qualità della vita. Lui ha appena fatto innovazione: il rapporto tassista-cliente è articolato su pochi passaggi standardizzati e sempre più anonimi (dove andiamo? -tragitto- arrivo- pagamento-saluti). Lui invece ha instaurato una relazione: ha saggiato la mia personalità, mi ha offerto informazioni storico-artistiche su Milano e una narrazione personalizzata, mi ha aiutato a inquadrare il quartiere di Porta Venezia, ha accettato uno scambio ideologico: il tragitto non è stato un semplice trasferimento ma ha costruito senso, in una manciata di minuti due umani si sono arricchiti reciprocamente.

Per cui è stato un designer! In un futuro ormai prossimo ha senso che i taxi abbiano un umano al volante e non siano guidati, in maniera forse più sicura ed economica da un’intelligenza artificiale, solo se quegli umani saranno capaci di esprimere il valore aggiunto della relazione sollevandosi dalla mera funzione meccanica di trasportatori. Anche questa è responsabilità sociale … Mi guarda un po’ perplesso, ma riflessivo. Forse un processo di consapevolezza si è avviato.

 Building the (im)possible

La mattinata è cominciata bene. Nel pomeriggio mi attende il Salone Satellite dove 550 designer under 35, provenienti da 34 Paesi, dal Venezuela alla Cina, dal Brasile al Pakistan, passando per Finlandia e Giappone, sono chiamati a confrontarsi come ogni anno su un tema rispondendo a una domanda.

Appena arrivato, avverto il clima di attesa: per l’assegnazione del “Salone Satellite Award”. A breve la giuria, presieduta da Paola Antonelli, farà conoscere i nominativi dei tre vincitori e delle tre menzioni speciali. Per mettere a fuoco la relazione fra processo formativo e sviluppo progettuale dei designer, il Salone Satellite ha invitato anche 27 scuole e università di design a confrontarsi sul tema “Building the (im)possible – Process, progress, practice” rispondendo alla domanda: “Design dove vai?”.

È mercoledì pomeriggio e sono insieme a un gruppo di giornaliste/i quando arriva il comunicato stampa sui vincitori. I commenti, talvolta, sono basati su una serie di equivoci, soprattutto da parte dei neofiti persi nella centrifuga emozionale del Salone Ufficiale, dei Fuori Salone, del Salone Satellite e dei Design Districts che nel tempo si sono moltiplicati. L’errore di fondo è sempre lo stesso: avere un proprio favorito senza tener conto del tema, della domanda e, soprattutto, del contesto.

Già dall’edizione dell’anno scorso i temi dell’economia circolare e della sostenibilità, in tutte le sue espressioni, erano “i fondamentali” del Salone Satellite.

Sta cambiando profondamente il modo di vivere e abitare come conseguenza della nostra indubbia mutazione antropologica: sempre più digitalizzazione, realtà aumentata, intelligenza artificiale, metaverso da un lato e, dall’altro, sempre più domanda di riciclo e progressiva riduzione d’impatto sull’ambiente. Ai giovani designer del Salone Satellite non è stato chiesto soltanto di proporre nuove estetiche, nuovi materiali, nuovi cromatismi abbinati a nuove funzionalità, ma è stato chiesto che tutto ciò sia conciliabile con fonti riciclabili o già frutto di riciclo.

Questa è la direzione nella quale andare, questo è l’(im)possibile che è stato chiesto di costruire. E allora non bisogna stupirsi se non è tra i premiati, ad esempio, l’elegante ed ergonomica chaise long in legno trattato con colori vegetali, apprezzatissima dai visitatori; e che una menzione speciale venga invece assegnata a … un mattone!

Avocado seed brick

Il mattone realizzato con semi di avocado e un legante ricavato dall’alga Sargasso è una delle applicazioni della ricerca condotta dalla designer Maria Elena Pombo sulle proprietà e l’utilizzo dei semi di avocado per bilanciare la carenza di materie prime.

In un mondo in cui la sola produzione di cemento rappresenta l’8% delle emissioni globali di CO2, è necessario inventare alternative. La proposta della Pombo prevede semi di avocado e alginato, un legante vegetale ricavato dall’estratto di alghe brune, come il sargasso.

Questi due elementi, i semi di avocado invece della sabbia e alginato al posto del cemento, potrebbero costituire un’alternativa: il cemento è la sostanza più consumata al mondo dopo l’acqua. Inoltre contribuirebbe a tenere sotto controllo, utilizzandola, l’alga Sargasso che, in abnorme espansione negli ultimi anni, rappresenta una minaccia ecologica per i mari caraibici. “Building the (im)possible”? E allora un mattone, questo mattone: coerente e convincente!

Ora, forse, anche agli amanti di un design “bello ed esclusivo” è più chiaro perché sia stata premiata la Pombo, designer venezuelana residente negli USA, fondatrice del laboratorio design “Fragmentario” che figura come autore di “Avocado seed brick”. Ma andiamo per ordine e veniamo ai tre premiati e poi alle altre due menzioni speciali.

Tatami: da pavimento…a qualsiasi cosa

Il vincitore assoluto è il collettivo giapponese HONOKA che recupera, nel processo di stampa 3D, le fibre vegetali utilizzate finora per i tatami. Il tatami non tira più: il pavimento tradizionale non è più richiesto dalle giovani generazioni giapponesi. Cosa farci con le infinite tonnellate di tatami presenti in milioni di case? E qui scatta la scintilla che mette insieme riciclo creativo e recupero della tradizione: le fibre del tatami ridotte in polvere e poi trattate con un legante vegetale diventano filamento per stampanti 3 D per produrre arredi e complementi d’arredo in quella che potremo definire “resina tatami”.

I sei ragazzi al momento della proclamazione sono euforici: avete presente la curva del Napoli il giorno della matematica certezza dello scudetto? Ecco, un’esplosione di gioia paragonabile quando viene letta la motivazione che coglie lo spirito del loro progetto, intrinsecamente sostenibile e perfettamente in linea con i principi e gli obiettivi dell’economia circolare: “Con “Tatami Refab” reintroducono il tatami, che sta progressivamente scomparendo. L’uso della stampa 3D e il recupero di materiali poveri si sposano in un progetto versatile che in modo innovativo reintroduce nella quotidianità e negli spazi domestici la cultura tradizionale».

In sintesi: la tecnologia al servizio della tradizione. E una consapevolezza che emerge chiara dalle parole del team leader: “Design is every thing”. Qualsiasi cosa può essere oggetto di design.

Brutalismo e sostenibilità possono andare d’accordo?

No, verrebbe da rispondere subito se abbiamo in testa solo il cemento armato, protagonista principale del brutalismo in architettura: la Torre Velasca a Milano ad esempio. Sì, invece, se come ha fatto lo Studio Ryte di Hong Kong, si riesce a mettere insieme sostenibilità e

linguaggio brutalista come fa Triplex Stool, un leggero ma robusto sgabello in tre pezzi che si smontano e si smontano con grande facilità. Il materiale? Fibra di lino biodegradabile: materiale naturale di grandissima resistenza.

Aspetti puntualmente colti nella motivazione della Giuria, che assegna allo studio il secondo premio: “Dalla leggerezza (assemblabile) all’efficienza strutturale; dalla compattezza alla sostenibilità. Il Triplex Stool in fibra Flax è un oggetto d’arredo sperimentale che risponde allo stile di vita nomade dell’epoca odierna. L’adozione del Flax, una fibra sostenibile, con la sua leggerezza introduce una rivisitazione contemporanea del forte linguaggio brutalista.

L’amaca che abbatte i confini

Il terzo premio va al Design belga, ma c’è tanta Africa dentro: è per Georges Ahokpe (beninese) + Estelle Chatelin (belga), presenti al Salone Satellite con Belgium is Design, per l’amaca “Ku do azò” che impiega tessuti riciclati filati in Benin.

Messo in sospetto dall’età avanzata, capisco che l’imponente signore che sto intervistando allo stand belga non può essere un co-designer dell’amaca. È infatti un francese, appassionato di design belga, che “presidia” lo stand per una sorta di senso di colpa perché sostiene che i suoi connazionali hanno cercato sempre di nascondere la creatività dei belgi: Je préside cette tribune car nous français avons toujours essayé de cacher la créativité des belges! Il est temps de rendre ce que nous avons pris… Ha un tono stentoreo, enfatico come le parole e, data anche la stazza, mi viene spontaneo un paragone datato : sembra il sosia di De Gaulle!

“Ku do azò” è un letto sospeso, disegnato e tessuto a mano in Benin per i nostri interni europei: è il risultato dell’assemblaggio di sottili strisce di tessitura. Il duo Ahokpe + Chatelin ne fa il proprio campo di sperimentazione per creare mobili tessili. Ogni pezzo è unico nella sua combinazione di colori. La trama è realizzata con filato scucito da maglioni che finiscono dall’Europa sui mercati africani: in un certo senso un ritorno al mittente per rispondere alla domanda europea di comfort ed esotismo ma anche un riciclo di prodotti del consumismo. “Et donc nous consommons le consumérisme!” commenta il sosia di de Gaulle molto, molto soddisfatto del suo gioco di parole: alla fine consumeremo anche il consumismo!

Pure la motivazione della giuria ha una buona dose di enfasi, ma direi che ci sta: Pensato in Belgio e sviluppato nel Benin con tessuti riciclati, questo oggetto antico esprime un pensiero sostenibile attuato nell’incontro di tradizioni e manifatture che abbattono confini geografici e aspirazioni colonialiste.

I Dolmen coreani

Menzione speciale per Primitive Structure di Weonrhee, un designer di Seul che cerca di riutilizzare la massa di rifiuti dell’industria del legno: crea design di valore, ispirato a motivi architettonici e al paesaggio coreano, dal legno usato e scartato che inizia una nuova vita come oggetto funzionale e decorativo.

In questa sorta di Dolmen alcuni vedono delle nervature di foglie, altri un richiamo al manto della tigre, altri ancora le nervature del marmo: insomma l’evocazione congiunta del regno animale, vegetale, minerale.

Anche in questo caso è stato premiato non l’oggetto in sé ma l’intero processo che partendo dagli scarti recupera funzionalità e bellezza. Insomma, parafrasando De André, dal letame industriale possono nascere oggetti e arredi design.

Soddisfattissimo il designer perché la sua elementare, e quindi praticabilissima, idea di design sostenibile è stata colta sia dal pubblico che affolla il suo stand sia, e in maniera puntuale, dalla Giuria: In questo progetto, il designer si è focalizzato su due aspetti: il ciclo del materiale durante il processo di costruzione e le origini primitive della sua cultura di appartenenza. Cultura di origine e progetto contemporaneo convergono in un processo che sperimenta e reinventa forme primitive adattandole a nuove esigenze.

Mentre mi allontano mi raggiunge un altro coreano che ha osservato il nostro dialogo; ha una maglietta con un emoji asiatico e un pass stampa al collo. Mi chiede se ho in previsione di andare in Corea del Sud a breve: … veramente no! Fa una faccia molto delusa; sono imbarazzato. Ma lui si rianima e mi dice che comunque potrei intanto scaricare l’app KakaoTalk, perché “without it you could not survive in Seoul”. Caspita! Senza l’app a Seul, che non è nei miei programmi, non sopravviverei … Che qualche passaggio, dato il mio carente inglese, mi sia sfuggito?! Comunque non voglio che rifaccia la faccia mesta e lo rassicuro con un “I’ll download the app, don’t worry!” e con un enfatico pollice alzato. S’illumina di un sorriso a 180° e agita le mani alla maniera degli emoji. Ricambio mentre mi dirigo verso la navetta che rischio di perdere; e mi viene in mente una considerazione ispirata a una mitica battuta di Corrado Guzzanti: “Ma scaricata l’app, io a uno sconosciuto coreano che xxxxx gli devo dire?!”. Ma forse sto solo invecchiando e un senso tutto questo ce l’ha!

 La resilienza del giunco

Terza menzione speciale a “Junky”. Joaquin Ivan Sansone è argentino, non spagnolo: ci tiene a precisarlo visto che in alcuni frettolosi lanci di agenzia gli è stata attribuita una nazionalità spagnola. In Spagna ci vive.

Quello che propone ha la forza della semplicità: una seduta che sfrutta l’assemblaggio per dare forza strutturale al giunco, pianta palustre diffusissima nelle zone fluviali argentine e che viene già utilizzato per creare numerosi oggetti di artigianato. Il designer ha realizzato un prodotto esteticamente piacevole, dal gradevole odore di erba e di campagna, che utilizzando un materiale naturale con l’aggiunta di semplici fascette metalliche è facilmente replicabile, in poco tempo e a km zero. Quanto al nome “Junky” è il trionfo di “nomen omen”: nel nome la sua storia, la sua personalità, l’augurio metaforico di essere utili restando sé stessi.

La motivazione della giuria esalta l’intrinseco messaggio di resilienza: “Dalla ricerca nell’ambito dei materiali, nasce questa robusta seduta, che sfrutta la minima forza combinata di ciascun elemento. A dimostrazione della forza resiliente della natura. La semplicità guida la lettura di quest’oggetto che sfrutta, con una soluzione percorribile e un’estetica gradevole, le proprietà intrinseche del materiale. Trasmettendo un messaggio di resilienza.”

Alle le tre menzioni speciali (Pombo, Sansone, Weonrhee) è stato assegnato il Róng Design Award che consiste in una residenza di un mese alla Rong Design Library nel distretto Yuhang di Hangzhou in Cina. I tre designer avranno la possibilità d’integrare l’artigianato e i materiali tradizionali cinesi nel loro processo creativo. In tempi nei quali il mondo sembra essere tornato a contrapposizioni geopolitiche insanabili, ogni iniziativa tesa a ripristinare un dialogo tra culture, partendo dal fare artigiano tra arte e design, riaccende la speranza.

Design come approccio ecosistemico

Design, cioè progetto. Progettare deriva dal (tardo) latino proiectare: un gettare avanti che, in altri termini, implica una consapevolezza del presente per poter immaginare il futuro. Il Design è tecnica, filosofia, sociologia, antropologia, comunicazione … è “anello di congiunzione tra ingegneria e arte, tra invenzione e stile, tra produzione e mercato” come già insegnava Munari.

E tanti sono i designer, da sempre ma ora c’è maggiore consapevolezza: designer grafici che progettano la comunicazione visuale, designer d’interni che progettano ambienti funzionali e confortanti, green designer (di orti e giardini), designer che si preoccupano di garantire la migliore sperienza utente, designer che riprogettano processi lavorativi … e si può continuare a lungo. Ma finora e troppo spesso queste categorie sono rimaste separate e il concetto di design legato essenzialmente all’idea di un prodotto, un oggetto, un arredo, un’automobile, un manufatto capace di mettere insieme funzionalità e bellezza.

Il merito del Salone Satellite e del Salone Satellite Award, già da qualche anno ma in questa edizione più che mai, è di aver detto implicitamente che non bisogna confondere il design con i suoi effetti: innovazione, ergonomicità, stile … Ma che il design è soprattutto un approccio alla vita intorno a noi e alla soluzione di problemi che il contesto in continua evoluzione pone. E il contesto oggi ci pone una priorità ineludibile che prende il nome di sostenibilità.

L’assegnazione dei tre premi e delle tre menzioni speciali ha sottolineato nella maniera più evidente come il passaggio da un design centrato sul prodotto a un design centrato sull’uomo non basti più; occorre pensare e progettare in termini design centrato sul pianeta.

Dall’Human Centered Design al Planet Centered Design sposando in definitiva la filosofia dell’antropologia non antropocentrica: era un segnale debole fino alla pandemia, ora è un messaggio forte e chiaro lanciato tramite il Salone Satellite Award.

 

Il design deve essere responsabile prioritariamente nei confronti del pianeta, cercando soluzioni sostenibili che contribuiscano a ripristinare e preservare l’ecosistema che consente agli umani di continuare a vivere; e a vivere su questo pianeta.

Perché la Terra esisteva prima di noi e potrà continuare ad esistere anche senza di noi: ma non viceversa.

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