Lavoro, donne e Coronavirus: storia della parità che non verrà

In Europa la percentuale di donne inattive a causa di impegni di cura familiari ha raggiunto il 31%, con un peggioramento negli ultimi dieci anni“. La sintesi della situazione attuale rispetto al goal5 di Agenda 2030 secondo Asvis è questa. Donne sottorappresentate nelle posizioni manageriali, pagate meno degli uomini a parità di mansione svolta (un 16% in meno in Europa) e penalizzate pesantemente anche dalla pandemia che, come successo in passato con altre emergenze sanitarie come quella legata alla diffusione di ebola, ha mostrato di ingigantire tutte le disparità esistenti, comprese quelle di genere. Disparità ed effetti distorsivi che, secondo Clare Wenham, assistente professore di politica sanitaria globale alla London School of Economics,  possono durare anni.

Qualcuno dirà che non è il momento di ragionare su questo: ci sono problemi più urgenti, adesso. E invece no.

Donne, è arrivato lo smart working!

A leggere alcuni titoli di articoli di giornale, il lavoro “da casa”, erroneamente etichettato come smart working, potrebbe agevolare le mamme. Come se l’associare la cura dei figli, della casa, degli anziani, degli animali e di tutto quello che nel mondo ha bisogno di essere “curato” debbano essere (qualcuno dice per predisposizione naturale) proprio le donne. Mamme e non. Come se si fosse fatto, dal punto di vista della narrazione della vita familiare, un salto indietro almeno fino agli anni Cinquanta. Tanto che Hella Network ci ha realizzato una campagna, mirata alla sensibilizzazione sul tema, riprendendo proprio l’idea della casalinga che aspetta con il piumino in mano il rientro del marito lavoratore, al quale non mancherà un perfetto sorriso di bentornato e un pasto caldo.

Una campagna femminista, dirà qualcuno cercando di sminuire il problema. Eppure, secondo un articolo riportato da The guardian, su dati analizzati dall’Observer, le mamme inglesi, per esempio, forniscono, in genere, almeno il 50% in più di assistenza all’infanzia e trascorrono dal 10% al 30% in più di tempo con i figli rispetto ai padri. Un’ora e mezza in più al giorno di impegno delle donne nella cura dei bambini e nell’aiuto compiti rispetto agli uomini. “C’è poi da chiedersi – sostiene Stefano Epifani, che da un decennio si occupa di diritti umani e tecnologie digitali in America Latina per alcune agenzie delle Nazioni Unite come UN Habitat  – come leggere alcuni dei dati che si riportano e, oltretutto, se tali dati abbiano sempre un senso. O, meglio, se abbiano senso le conclusioni che se ne traggono. Perché troppe volte la ricostruzione delle dinamiche che contribuiscono o dovrebbero contribuire allo sviluppo di modelli di pari opportunità (in questo caso si parla di parità di genere, ma non molto cambierebbe se si parlasse di etnia, posizione sociale, orientamento politico, sessuale o altro), basandosi su letture distorsive di dati effettivi, rischia di crear più danni dei problemi che risolve. Sta succedendo con i discorsi che ruotano attorno all’Obiettivo 5 di Agenda 2030, e questo è evidente soprattutto nei Paesi dove alcune disparità sono più evidenti, esattamente quello che è successo nei decenni scorsi con la cooperazione internazionale: si confonde il concetto di uguaglianza di diritti con quello di corrispondente uguaglianza di atteggiamenti, scelte, espressioni della libertà individuale, attitudini. E ridurre alcuni di questi elementi a delle percentuali senza un approfondito percorso di analisi correlato, rischia di creare delle distorsioni significative e, oltretutto, di non riuscire a sviluppare quei driver di cambiamento più opportuni, limitandosi a correttivi che agiscono sulla forma piuttosto che sulla sostanza. Il problema – ad esempio – non è, guardando ai dati citati, se le mamme passino il 7% o il 21% di tempo con i figli in più o in meno rispetto ai padri, ma se nella determinazione di questo equilibrio abbiano un ruolo elementi discriminatori che inducono in una direzione o le costringano a fare una scelta. Perché in qualsiasi contesto che voglia garantire la parità (e quello di genere è solo uno dei tanti esempi di parità) ciò che si deve rifuggire è un meccanismo che trasformi la parità in livellamento ed annichilamento delle differenze, che invece vanno valorizzate ed enfatizzate perché rappresentano la vera ricchezza di ogni società multiculturale. Quindi dire che donne passano il 10% in più rispetto agli uomini nel supporto per i compiti non significa assolutamente nulla, se non si indaga quanto quel 10% rappresenti il frutto di una costrizione o di una scelta. E non distinguere questo fatto porta a guardare il dito (quanto tempo passo con i miei figli?) invece che la luna (quanto tempo vorrei passare con i miei figli rispetto allo svolgere altre attività? Ed in questa scelta sono discriminata in quanto donna?): può sembrare un dettaglio, o un cavillo, ma è lo scoglio contro il quale spesso si incagliano molte delle politiche a supporto dell’SDG5 di Agenda 2030. Parità di diritti non vuol dire fare tutti le stesse cose impiegandovi lo stesso tempo, ma avere tutti le stesse possibilità di far ciò che si vuole, indipendentemente da genere, età, status e condizionamenti culturali distorsivi (cosa, quest’ultima, che apre un quadro ancora più complesso). Una società equa non è quella in cui i figli sono accuditi esattamente al 50%, ma quella che consente al genitore che vuole occuparsene (anche magari a discapito di altro) di farlo indipendentemente dal suo genere. Ecco quindi che quel 10% rappresenta un indicatore poco significativo, se non corredato di una dimensione di indagine ben più articolata. È il caso del telelavoro in questo periodo: il punto non è se uomini e donne si dividano equamente le attività, ma se in questa divisione delle attività entrino fattori esterni di tipo discriminatorio che inducano in una scelta penalizzante per uno dei due generi. Quindi il punto non è tanto guardare al risultato (chi fa cosa) ma al processo che lo ha generato (perché chi fa qualcosa lo sta facendo?)”. 

Una disparità cresciuta con il lockdown da Coronavirus?

Secondo la ricerca condotta da economisti delle università di Cambridge, Oxford e Zurigo tra il 9 e il 14 aprile, infatti, sia le madri occupate che quelle disoccupate impiegano in genere circa sei ore a fornire assistenza all’infanzia e istruzione domestica ogni giorno lavorativo. Al contrario di un padre medio che a casa trascorre poco più di quattro ore nel fare la stessa attività. Un divario di genere che la pandemia ha rafforzato e che è ancora maggiore nelle famiglie ad alto reddito, dove solitamente si preferisce lavori l’uomo, in quanto maggiormente retribuito. A riprova del maggiore impegno richiesto alle donne a casa, The Guardian evidenzia un calo del numero di articoli accademici scritti da ricercatrici (a fronte di un aumento di articoli scritti da uomini).

Non molto diversa la situazione in Spagna dove, secondo uno studio preliminare condotto dagli economisti Lídia Farré e Libertad González, nonostante sia cambiata la distribuzione dei compiti in casa, e ci sia una “maggiore volontà” da parte degli uomini di svolgere compiti che in genere prima non li riguardavano, le donne dedicano il 56% del loro tempo fuori dal lavoro alla famiglia contro il 30% del tempo dedicato dagli uomini. La stessa ricerca mostra come, spesso, le donne tendano a facilitare gli orari di telelavoro del proprio partner mostrando loro una maggiore flessibilità.

Ma l’Italia no?

In Italia non può che essere, non fosse altro che per tradizione, una emergenza conciliazione. Secondo uno studio realizzato da Fondazione consulenti del lavoro dal titolo “Mamme e lavoro al tempo dell’emergenza Covid-19”, sono circa 3 milioni le donne occupate, poco meno di un terzo del totale (9 milioni e 872 mila), con almeno un figlio di età inferiore ai 15 anni. E saranno proprio le mamme (o le donne in generale) bersaglio facile non solo della fase 0, ma anche della fase 2 fino alla fase 2+n.

Dallo studio emerge che in questi due mesi di lockdown, le donne con figli hanno lavorato più dei papà, visto il loro impiego in servizi essenziali, dove la presenza femminile risulta più alta rispetto alla maschile. Su 100 occupate con almeno un figlio con meno di 15 anni, 74 hanno lavorato ininterrottamente (contro 66 uomini nella stessa condizione), il 12,5% ha ripreso il lavoro dallo scorso 4 maggio, mentre il 13,5% dovrebbe ritornare alla propria attività entro la fine del mese. La stessa ricerca, guardando allo smart working come opportunità, evidenzia come le lavoratrici meno qualificate non potranno lavorare “da remoto” e dovranno tornare in sede oltre che accudire i figli: sono 1 milione 426 mila (il 48,9% delle lavoratrici mamme), di queste circa 710 mila percepiscono uno stipendio netto inferiore ai 1.000 euro.

Anche in questo caso, parlando di smart working si dà quasi per scontato che la conciliazione vita-lavoro sia un problema delle mamme. Solo delle mamme e non dei papà. Del resto, questa considerazione è figlia di un dato: il 27% delle donne lascia il lavoro dopo la nascita del primo figlio. Come a dire che la cura dei figli è solo delle mamme?

Guardare il mondo con gli occhi di una donna, lasciar decidere solo uomini

Volendo parlare di diritti delle donne come diritti umani, goal 5, e di diritto a un lavoro dignitoso, goal 8, il pensiero va ai tanti movimenti che invitavano a “guardare il mondo con occhi di donna”. Cosa alquanto complessa da fare se, per esempio come avvenuto anche in Italia, si istituiscono task force per far fronte all’emergenza e alla ricostruzione post emergenza costituite quasi esclusivamente da uomini. Tanto da dover correre ai ripari (forse), aggiungendo qualche quota di genere guarda caso colorata di rosa, a seguito del movimento spontaneo di protesta #datecivoce che ha usato i social network per sollevare il “piccolo problema”.

 

 

 

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