Per un lavoro agile come leva per la trasformazione sostenibile delle nostre società

Negli ultimi mesi, complice il lockdown forzato causa pandemia, si è fatto strada nel dibattito pubblico il tema del lavoro agile, o smart working: un’esperienza avanzata in molte realtà del settore privato ma ancora allo stato embrionale nella P.A., il lavoro agile è divenuto in poco tempo un argomento familiare per molti Italiani che, come spesso accade, si sono diligentemente divisi in fazioni pro o contro questa nuova formula di organizzazione del lavoro.

Smartworking come leva di cambiamento

L’obbligata permanenza in casa ha rappresentato un elemento esogeno e distorsivo delle modalità con cui gestire il lavoro non in presenza, comportando elementi di stress psicologico e aumento di carico di lavoro e cura, soprattutto per le donne, come ha evidenziato, fra gli altri, una recente ricerca del CNR. Tuttavia, al netto di un quadro di gravissima crisi sanitaria e socio-economica, i cui effetti stanno solo ora pienamente dispiegandosi, va colta l’opportunità di analizzare le diverse dimensioni di un fenomeno che sembra destinato a sopravvivere all’emergenza sanitaria. Molta della discussione sviluppatasi si è focalizzata sul contributo che lo smart working – che, è bene ricordarlo, non va ricondotto alla fattispecie del telelavoro – possa dare in termini di spinta al riorientamento al risultato della macchina pubblica: un regime integrato di presenza e remoto sembra condurre naturaliter alla maggiore autonomia e responsabilizzazione dei lavoratori e non lascia alibi alla dirigenza che deve mettere in campo doti organizzative e manageriali al fine di coordinare con efficacia le persone indipendentemente dalla loro presenza alla scrivania. È evidente che sono molti gli aspetti ancora da declinare, soprattutto nel settore pubblico, ma sembra potersi affermare con una certa ragionevolezza che l’elasticità propria dello strumento possa essere una leva efficace per il progressivo abbandono dell’ottica meramente formalista e adempimentale della PA Italiana.

Quale normalità?

Un aspetto ancora marginale sembra essere, tuttavia, quello legato alla sostenibilità e all’impulso trasformativo dell’adozione in pianta stabile di strategie di lavoro agile. Sono note le prese di posizione tese a richiedere di “rientrare in ufficio”: le parole del Sindaco di Milano Beppe Sala o del giuslavorista Pietro Ichino hanno dato voce alla necessità di dismettere lo smart working d’emergenza e tornare, per così dire, alla normalità. I motivi di questa decisa reazione sono molti e non esclusivamente relativi alla vulgata che i servizi ai cittadini subiscano impatti negativi in termini di qualità. La denuncia investe il crollo delle entrate della ristorazione, specialmente nelle grandi città come Roma, e la preoccupazione degli investitori immobiliari per la progressiva scomparsa dalle scrivanie dei travet pubblici e privati. Se a tutto ciò si aggiunge che, soprattutto per quel che riguarda il cosiddetto middle management, prende corpo una pressione per impiegare strumenti legati all’autorevolezza della gestione in luogo dell’autorità, non è difficile comprendere come lo scossone ancora in atto sia profondamente indigesto per molti. Ma, sarebbe da chiedersi, cos’è la normalità? E davvero si era tutti così soddisfatti della situazione ante Covid, tanto da ingranare bruscamente la retromarcia?

Quali riflessioni sul lungo periodo?

È del tutto assente dalla discussione pubblica più ampia una riflessione sul ruolo di un approccio di lungo periodo alla modifica dell’ottica para-fordista del lavoro nella trasformazione sostenibile della società e, in ultima battuta, nel miglioramento del livello di benessere comune, che rappresenta, come individuato nel rapporto annuale sul Benessere equo e sostenibile (BES), l’insieme degli aspetti che concorrono alla qualità della vita dei cittadini sulla base della multidimensionalità del benessere. Un primo aspetto è quello della conciliazione fra i tempi di vita privata e lavorativa: una volta scardinata la correlazione diretta fra output e presenza sul luogo di lavoro, prende piede un potente processo di destrutturazione della suddivisione del tempo che può avere effetti positivi sulle relazioni sociali e familiari. Come ha rilevato l’Istat, “il tempo del lavoro retribuito è un tempo obbligato che condiziona la vita delle persone, definendo per differenza l’ammontare del tempo di cui si può disporre liberamente per prendersi cura di sé, della propria famiglia”. Non solo: esso “condiziona la gestione dei tempi di vita degli occupati ma anche delle loro famiglie, poiché è nell’ambito familiare che avviene più spesso l’organizzazione e la negoziazione fra il tempo di lavoro e gli altri tempi della vita quotidiana”. Altrettanto importanti sono la possibilità di ricostruire un quotidiano in termini di tempo libero e di riaggiustamento di abitudini e stili di vita, influenzati, ad esempio, dagli spostamenti per recarsi al lavoro. Da questo punto di vista, è intuitivo che ridurre il volume di spostamenti ha conseguenze positive sia sulla qualità dell’ambiente urbano, sia sul benessere delle persone: sempre l’Istat ha rilevato (dati 2017) che tra gli occupati il 73,7% usa esclusivamente mezzi privati per i propri spostamenti, il 7,0% soltanto mezzi pubblici e il 4,1% mezzi sia pubblici sia privati, mentre sono aumentati i flussi diretti fuori dal comune di residenza, in particolare per chi deve raggiungere il luogo di lavoro. Perché, allora, non tentare di rappresentare una nuova visione della città, una città intelligente (una smart city) con robuste fondamenta di connessione digitale e che, come auspicato, “faccia da hub di una rete di luoghi/villaggi/borghi di dimensioni ridotte dove le attività intellettuali si possono svolgere usando le nuove tecnologie del digitale, lasciando al centro cittadino solo le funzioni politiche e di rappresentanza”?

La vera scommessa è reinterpretare l’organizzazione della società

Ipotesi fantasiose? Forse. Quel che, tuttavia, guadagna spazio è la scommessa di reinterpretare l’organizzazione stessa di una società: senza voler qui intavolare una discussione circa l’irrazionalità di taluni meccanismi indotti propri del sistema di produzione e consumo capitalistico, non va dimenticato che taluni modelli sociali ed economici dati per acquisiti sembrano attagliarsi solo a chi è in grado (per età, per condizione personale e occupazionale, per genere) di seguirli senza indugio, tagliando fuori chi non stia, invece, al passo, perché entità non produttiva. In materia di tutela e promozione dei diritti delle persone più fragili (persone con disabilità, anziani, minori, donne svantaggiate, migranti), questi sembrano, infatti, essere recepiti in un’ottica più riparativa che in un quadro di integrazione sistemica. Si colgono i segnali, fors’ancora deboli e sotto traccia, di una pacata tensione rivoluzionaria che si alimenta dal basso, proprio mentre grandi realtà globali come Google, Twitter e Facebook decidono di proseguire il lavoro da remoto anche a prescindere dagli strascichi della pandemia, tanto che quando l’emergenza sanitaria sarà finita, secondo la Harvard Business School un lavoratore su sei continuerà a lavorare da casa o in regime di co-working almeno due giorni a settimana. È probabilmente prematuro parlare di società post-Covid in cui la “telepresenza” sostituirà o si alternerà alla presenza fisica. O di nuove fughe dalle città che possano revitalizzare le aree interne del Paese, stimolando un riequilibrio città/campagna. O, addirittura, di southliving, un ritorno al Sud del Paese in cerca di condizioni materiali e di vita migliori grazie alle possibilità offerte dal lavoro agile. Quel che appare chiaro, in ogni caso, è che tornare indietro significherebbe, per buona parte del settore pubblico e privato del Paese, non aver tratto, in modo imperdonabile, nessun insegnamento da quanto accaduto.

Verso un cambiamento sostenibile

Ci si deve riferire, evidentemente, alle attività che possano essere svolte da remoto (che un recente approfondimento ha stimato riferibili, per il settore pubblico, a circa 500.000 individui e su cui sarebbe oltremodo auspicabile una puntuale riflessione), ma è evidente la diretta relazione con le più recenti riflessioni materia di sviluppo sostenibile e, in particolare, con alcuni degli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) individuati dalle Nazioni Unite nell’Agenda 2030. Si pensi all’obiettivo 3 in materia di salute e benessere per tutti ad ogni età, con particolare riferimento ai target in materia di riduzioni di morti e feriti per incidenti stradali e per inquinamento; all’obiettivo 5 in materia di eguaglianza di genere e empowerment delle donne e delle ragazze con particolare riferimento alle misure di conciliazione lavoro-famiglia; all’obiettivo 8 in materia di lavoro dignitoso e crescita economica; o, ancora, all’obiettivo 11 in materia di città e comunità sostenibili, con particolare riferimento ai target di urbanizzazione sostenibile, riduzione dell’impatto ambientale pro capite, collegamenti tra aree urbane e periferiche e rurali. Insomma, in un’estate che per molti è un periodo di workation (neologismo derivato dalla fusione di work e vacation), andrebbe colta l’occasione per avviare un ragionamento non partigiano che coinvolga la politica, l’impresa, la tecnocrazie, l’informazione e la società civile organizzata per compiere, assieme, uno sforzo di immaginazione, al di là del contingente e oltre le necessità e le tensioni dell’oggi, e tentare di concepire, sin da ora, come sviluppare le relazioni umane e lavorative nei prossimi decenni e magari riannodare l’idea del lavoro a una concezione più complessa della mera controprestazione in denaro.

È una disarticolazione lontana. Pericolosa, persino. Ma che può contribuire a superare la visione meccanicistica dell’homo eoconomicus e accettare, una volta per tutte, che le ragioni alla base dell’azione umana, anche in campo lavorativo, abbiano a che fare con motivazioni profonde e tese, perché no, alla elementare ricerca della felicità.

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