Genesi e diffusione delle fake news: inferenza, manipolazione, paradosso

Fake News: meccanismi di sviluppo ed il perché la linguistica digitale deve essere proposta con severa scientificità al fine di risultare utile alla rigenerazione di spazi di sano scambio

Tu credi, immagino, che il nostro compito principale consista nell’inventare parole.

Neanche per idea! Noi le parole le distruggiamo (…) Che bisogno c’è di una parola

che è solo l’opposto di un’altra? Ogni parola già contiene in sé stessa il suo opposto.

Prendiamo ‘buono’, per esempio. Se hai a disposizione una parola come ‘buono’,

che bisogno c’è di avere anche ‘cattivo’? ‘Sbuono’ andrà altrettanto bene,

anzi meglio perché, a differenza dell’altra, costituisce l’opposto esatto di ‘buono’.

Ancora, se desideri un’accezione più forte di ‘buono’,

che senso hanno tutte quelle varianti vaghe e inutili: ‘eccellente’, ‘splendido’ e via dicendo?

‘Plusbuono’ rende perfettamente il senso,

e così ‘arciplusbuono’, se ti serve qualcosa di più intenso

G. Orwell, 1984

 

Secondo James Ball, autore di Post-Truth: How Bullshit Conquered the World (2017), l’uscita del Regno Unito dall’UE e l’elezione di Donald Trump sono due fenomeni generati o, diversamente, molto condizionati dalle fake news. L’affermazione è molto impegnativa e – bisogna ammetterlo per onestà intellettuale – il metodo d’indagine del giornalista britannico, quantunque avvincente, non sempre appare molto rigoroso, anzi, in alcune circostanze cede generosamente a ciò contro cui, giustamente, prende posizione. Per esempio, se noi scriviamo, come fa Ball, “this a problem the US has had plenty of time to grow familiar with: Donald Trump can generate more political nonsense in an hour than most of his rivals can produce in a year” e, subito dopo, aggiungiamo “Trump’s versatility in generating half-truth, untruth, and outright spectacular mendacity borders on genius”, sul piano scientifico abbiamo alcuni doveri: (1) documentare questo processo di ‘familiarizzazione’ (plenty of time to grow familiar with); (2) definire il concetto di “sciocchezza” (political nonsense); (3) stabilire il rapporto linguistico-dialettico tra “un’ora” (an hour) e “un anno” (a year); (4) dare con accuratezza un riferimento per “versatilità” (versatility); (5) delimitare l’area semantica di “mezza verità, falsità e bugia” (half-truth, untruth, and mendacity: in quest’ultimo caso, occorrerebbe addirittura essere più precisi che in precedenza, data la ‘parziale’ sinonimia); (6) e così via fino al riesame della pragmatica linguistica. Ciò non esclude – intendiamoci! – che Trump sia responsabile di quanto gli è stato imputato. Anzi, purtroppo, ne abbiamo certezza.

Tuttavia, qui, il tema è costituito dalle fake news, cioè da quelle notizie false che alterano le scelte della comunità civile, originandosi, talora, da una volontà di manipolazione dell’opinione pubblica, talaltra, dalla crassa ignoranza di chi vede nemici e complotti dappertutto e, purtroppo, gode d’un certo seguito. Se dunque resta fermo il nostro obiettivo, allora ogni dichiarazione ‘generosa’ e ‘morbida’, non suffragata da dati e dimostrazioni, diventa, almeno per principio, elemento tra gli elementi di quel falso dominio che tentiamo di contrastare. Nel primo capitolo di questa ricerca, intitolato Grammatica Sostenibile, abbiamo trattato il valore perlocutorio della frase “tizio è pericoloso”: abbiamo fatto notare che un’asserzione del genere, quale che sia il suo valore di verità, se diffusa con efficacia, in specie sulla rete, può danneggiare irrimediabilmente l’esistenza del malcapitato destinatario. Abbiamo inoltre fatto un esempio a proposito del movimento complottista anti-vaccinale: se da un certo pulpito diciamo “noi rivendichiamo la libertà di cura”, non facciamo altro che mettere in moto dei processi di deduzione che porteranno l’utente medio a intuire che (a) “i vaccini fanno male” e (b) “questa è una dittatura sanitaria”. Noi non diciamo né (a) né (b), ma lasciamo intendere sia l’uno sia l’altro.

Nell’ambito d’una Grammatica digital-sostenibile, pertanto, non possiamo permetterci leggerezze e licenze: perché una linguistica digitale sia utile alla rigenerazione di spazi di sano scambio essa dev’essere proposta con severa scientificità.

Il problema dell’ultimo decennio, nato assieme al web 2.0, è sempre lo stesso ed è sempre attuale: si prende in esame la notizia o, in altri termini, il contenuto di un messaggio, ma si trascurano del tutto il medium di formazione e divulgazione, la lingua e le sue strutture profonde, le sue formule combinatorie, la sua ricorsività et cetera. Di conseguenza, si perde di vista il focus vero e proprio o, al più, si gira attorno a esso. Infatti, quando si consulta un motore di ricerca per capire cosa siano queste ‘maledette’ fake news, ci si imbatte facilmente e rapidamente in un macchiettistico e miserrimo ammasso di consiglieri che, per l’appunto, ci danno “10 consigli per riconoscere le fake news” o qualcosa di simile, ci svelano trucchi e ci rendono sofisti ineguagliabili a colpo d’occhio. È appena il caso di farla finita con certe sciocchezze: le tesi, quali che siano, si dimostrano con l’intransigenza della ricerca scientifica; il cosiddetto fact-checking (verifica dei fatti) cui giungono alcuni giornalisti seri è fondato sullo studio, non su ricerchine incrociate su siti e giornali. Le prime condizioni di conduzione di una notizia falsa sono la vaghezza e l’ambiguità dello stile; ed è evidente che, ogni qual volta in cui si tenta di confutare un testo vago e ambiguo riproponendo vaghezza e ambiguità, non si fa altro che nutrire la bestia: “Condividi solamente le notizie di cui sei sicuro”, “Il fatto che molte persone condividono un post non vuol dire che in esso si dica la verità” et similia sono suggerimenti di cui il web è colmo, ma che somigliano molto a “Muscoli scolpiti in 12 settimane”, “Impara l’inglese in 10 minuti al giorno”, “Copia i migliori trader per guadagnare bene” e tante altre corbellerie interamente basate su formule esortativo-imperative, con le quali cioè si mira a generare un certo effetto emotivo sul destinatario (call to action o mantra della prima ora dell’advertising). Anch’esse fanno parte dell’oscuro mondo delle fake news.

A questo punto, è d’obbligo un passo indietro. La stessa alacrità che ci ha indotti a revocare in dubbio alcune affermazioni, adesso, c’impone di tornare sui fatti. 16 aprile 2020: gli autori di Reality Check, trasmissione in onda sulla BBC, ‘dimostrano’ (questa volta, sì) che, in piena pandemia, Trump, Salvini e Bolsonaro sono stati i più attivi e fecondi tra i divulgatori di fake news. Trump è stato talmente audace da raccontare ai propri seguaci che, in un ospedale di New York, erano state rubate delle mascherine al solo scopo di favorire l’azienda che le produceva e commercializzava. Bolsonaro ha superato i limiti della pietas, affermando che il farmaco antimalarico idrossiclorochina era efficace contro il coronavirus, e Salvini, sempre incalzato da manie di propaganda, ha puntato il dito contro i cinesi annunciando urbi et orbi che il virus è stato creato nel noto laboratorio di Wuhan.

Il problema – così lo abbiamo definito prima perché è inutile prendersi in giro e far finta che non lo sia – è il seguente: il numero di condivisioni o retweet e like è direttamente proporzionale alla notorietà del personaggio e, comunque, quando il segmento linguistico è ‘pruriginoso’, è sempre elevato e non di facile misurazione. Occorre dunque chiedersi quale sia il meccanismo alla base della divulgazione di una falsa notizia. Perché la gente è presa da questa frenesia, a tal punto da farsi veicolo di menzogna? L’ignoranza fa la propria parte, ma non costituisce una spiegazione sufficiente.

Abbiamo già parlato – nel primo capitolo summenzionato – del concetto di presupposizione, termine molto noto agli esperti di pragmatica linguistica: in pratica, tutte le volte in cui comunichiamo qualcosa a qualcuno, nell’ambito d’una normale conversazione, omettiamo intenzionalmente e in buona fede di esplicitare le condizioni di verità dell’enunciato perché ne diamo per scontata la comprensione: la presupposizione, quindi, preesiste al discorso ed è taciuta, ma – si badi bene! – è una condizione di verità da non sottovalutare. Se diciamo “buona la torta della zia!”, presupponiamo che esista una zia, che la zia abbia fatto una torta, che il nostro interlocutore conosca la zia e anche d’averla per lo meno assaggiata. Come si può facilmente intuire, si tratta di un meccanismo essenziale al processo di comune comprensione. Nessuno di noi potrebbe mai impegnarsi in un estenuante dialogo che richiedesse l’esplicitazione di tutte le condizioni di verità. A ben vedere, la nostra ‘mente’ trasforma i dati frasali immagazzinati e ne ricava altri per inferenza. Aggiungiamo ora un altro concetto appropriato e consimile, quello di implicatura, che consiste in una sorta di deduzione che tutti noi ci concediamo sulla base di un codice implicito convenzionale. L’implicatura può essere di due tipi: convenzionale e conversazionale. Alcune parole della nostra lingua hanno assunto, nel tempo, un significato che va oltre quello morfo-grammaticale e che genera immediatamente delle connessioni. È questo il caso di “ma”, “ad esempio”, “quindi”, “infatti”, “insomma” et cetera. Nel dire “egli non è simpatico, ma è preparato”, di fatto, l’uso della congiunzione coordinante avversativa sarebbe fuorviante. Non esiste una relazione pertinente tra la simpatia e la preparazione, né, tanto meno, un’opposizione dialettica tra i due aggettivi; eppure noi comprendiamo perfettamente questi passaggi. Il connettivo “ma” è un’implicatura convenzionale. Diverso è il caso dell’implicatura conversazionale, che si sviluppa mediante un contesto di massime conversazionali, com’è stato indicato da Paul Grice, il filosofo del linguaggio che ha concepito la teoria in questione (1957, Meaning; 1975, Logic and Conversation): in pratica, la presenza di elementi di garanzia relazionale e conversazionale, quali sono quelli di quantità, qualità, relazione e modo, ci permette, ancora una volta, di guadagnare la comunione dei significati. Se diciamo “alcuni hanno lavorato in una parte dell’azienda”, entriamo in possesso di alcune informazioni con cui dedurre che ‘alcuni altri’ non abbiano lavorato e pure che ‘non si sia lavorato in un’altra parte dell’azienda’. “Alcuni” e “una parte” sono, nel caso in specie, attivatori-quantificatori dell’implicatura conversazionale.

Stiamo attenti, ovvero rendiamoci conto di quanto ‘sono’ pericolanti la relazione tra segni e parlanti e il legame semantico tra parlanti e parlanti! Il rischio di equivoco o d’una babele è sempre dietro l’angolo, per così dire.

O meglio: presupposione e implicatura sono tanto utili e inevitabili quanto pericolose, poiché imbonitori, demagoghi e parolai d’ogni genere e specie, conoscendone la forza, possono farne un uso assai efficace. Per far circolare con successo le fake news è necessario far leva sullo stesso principio di attivazione delle inferenze che concerne presupposizioni e implicature. Con un aggravante: nella quasi totalità dei casi, la notizia falsa stimola una certa concatenazione logica e, ‘non dicendo’, lascia intendere che esistano delle presupposizioni valide, ma n’è del tutto priva o è supportata da precondizioni altrettanto false. La torta – per intenderci – può essere stata acquistata dal pasticciere e attribuita alla zia per esaltarne le virtù in modo ingannevole. Di qui, si hanno “mascherine rubate”, “farmaci efficaci contro il covid” e “complotti cinesi”. Il margine di gioco è quello della probabilità linguistica che qualcosa possa essersi verificato o meno. Si badi bene: linguistica, non materiale, dal momento che il canale è per lo più il social network.

Così, il paralogismo è bell’e compiuto perché l’utente medio non sottoporrà mai la natura assertiva di una frase alla prova del sillogismo e, se mai lo farà, a prescindere dalla scolarità, non valuterà opportunamente la funzione dei postulati. In tal senso, una bella lezione ci è stata tramandata da Kant, il quale, nella Critica della ragion pura, parlava proprio di paralogismo trascendentale e diffidava il lettore dal dedurre il concetto di anima sostanziale dalla semplice unità dell’io. Quest’ultimo, infatti, non implica l’altro, non sotto il profilo logico.

L’azzardo delle inferenze consente a tutti di partecipare, ognuno dei partecipanti può dire la propria, per così dire, e sentirsi protagonista nel piccolo, triste e sciatto mondo dei follower di supporto e propaganda, conquistare un ruolo che altrimenti nessuno potrebbe mai legittimare. Si sviluppa così un’energia linguistica di compensazione e rimando che, paradossalmente, certe volte, non si esaurisce neppure in seguito alla confutazione perentoria dell’apocrifo. A pensarci bene, non può esaurirsi proprio perché le fake news, a queste condizioni, diventano un nutrimento psicologico insostituibile per amplissime categorie di personaggi inoccupati.

È fondamentale far notare che il ‘nostro argomento’ non è una recente acquisizione: la manipolazione o l’alterazione delle notizie, la tecnica e il ritmo degli intrighi informativi vengono da molto lontano. Ci limitiamo a documentare che, a metà degli anni Quaranta, l’Inghilterra comprese un aspetto fondamentale della strategia informativa, qualcosa cui gli altri paesi sarebbero pervenuti parecchio tempo dopo: l’uso della psicologia e del linguaggio per la realizzazione dei programmi politico-finanziari e militari, tant’è che fecero nascere un ufficio specializzato nella propaganda e nella manipolazione dell’opinione pubblica, lo Psychological Warfare Branche, in seguito sostituito dall’IRD (Information Research Department). Dunque, onore e merito alle competenze scientifiche, alla capacità di adattamento e alla ‘chiaroveggenza’ di chi seppe interpretare correttamente la realtà. In quello stesso periodo, in Italia, fu fondato un ‘ente’ il cui nome e la cui utilità, dopo più di sessant’anni, sono noti ai più. Anche solo per ‘sentito dire’, chiunque sa cos’è l’ANSA, vale a dire la più potente agenzia di stampa italiana. Ebbene? L’ANSA nacque proprio per volontà dell’inglese PWB e prese vita grazie a Renato Mieli, padre del rinomato Paolo e agente sul libro paga di Sua Maestà con lo pseudonimo di Merryl (Cfr. CEREGHINO, M. J., FASANELLA, G., 2014, Il golpe inglese)

In conclusione, giova ricordare quanto sia ardua l’impresa dello scienziato, il quale lotta quotidianamente contro due avversari: anzitutto, contro sé stesso; è anche lui un uomo, ha avuto anche lui una nonna dispensatrice di consigli popolari fondati sulle facili deduzioni; in secondo luogo, contro qualunque interlocutore che, incontrato nell’ordinaria e ‘sana’ quotidianità, voglia spacciare la bacinella di un barbiere per l’elmo di Mambrino – per usare le immagini di Miguel de Cervantes.

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