In rete, un tentativo di suicidio

Le parole, una volta introdotte in rete, sono affidate alla materia del sembrare, e il più delle volte non designano oggetti. Cosa succede se queste, poi, vengono ulteriormente private di un rapporto con il mondo? Un'analisi dei tweet congiunti prodotti da Conte, Letta e Speranza

Per quanto stupide siano le parole di uno sciocco,

talvolta bastano per confondere un uomo intelligente

Nikolaj Vasil’evič Gogol’, Le anime morte

 

C’era una volta il pulpito. Era, sì, in quanto eredità lasciata dal teatro greco, una piattaforma elevata a dare evidenza all’oratore di turno, ma non era solo questo; era anche e soprattutto un punto fermo e incoercibile tra la gente, che lo fissava e, nell’attesa del comizio, lo riempiva inconsapevolmente d’un particolare flusso vitale: quello del simbolo in azione, che solo pochi uomini erano in grado offrire. Che significa “offrire all’osservatore un simbolo in azione”? Vuol dire inequivocabilmente questo: unire nello spazio e nel tempo le aspettative di una comunità attraverso la parola di un uomo la cui condotta sia talmente riconoscibile da risultare quasi rituale. Le piazze degli anni Settanta e Ottanta, affollate e vibranti, ne erano immagine e concetto e restano, tuttora, qualcosa che si può vividamente narrare, non già come fatto in sé, che chiunque potrebbe riprendere e riproporre a piacimento, bensì come sostanza d’una visione. L’armonia e la fermezza delle orazioni che vi si tenevano si traducevano immediatamente in una particolare fecondità: i discorsi generavano oggetti, elementi d’unione e strumenti d’azione che l’uomo poteva portare con sé. Chi sceglieva d’essere membro di quelle adunanze, anche solo una volta, o, per caso, passava di lì entrava a far parte d’una storia, quella del ‘non essere mai più solo’. Il Berlinguer di Napoli del 1976 aveva la caratteristica d’essere lì e mai altrove, in un processo di identificazione psicosociale talmente forte e produttivo che il dire e l’esserci erano ampiamente riconoscibili.

Parecchi secoli prima, cioè al principio del VI secolo a.C., Atene potrebbe essere stata thèatron d’un intervento politico che oggi non si farebbe fatica a definire bizzarro. Il condizionale è dovuto alla probabilità che la resa degli storici antichi sia fantasiosa. In pratica, in quel periodo, Atene e Megara si contendevano l’isola di Salamina e il conflitto s’era rivelato talmente estenuante da mettere a dura prova la resistenza ateniese. Le autorità, di conseguenza, avevano vietato di rivendicarne il possesso sia a voce sia per iscritto. Si narra che Solone, essendo invece sostenitore della conquista, abbia infranto tale divieto fingendosi pazzo e sostituendo al discorso politico un’elegia: “Sono l’araldo giunto dall’amata Salamina ed ho composto un canto anziché un discorso” (CANFORA, L., 2001, Storia della letteratura greca, Bari-Roma, p. 74). Luciano Canfora commenta così il fatto letterario:

L’esordiale annunzio “ho composto un canto anziché un discorso” è chiaramente rivolto ad un pubblico che ‘si aspetta’ un discorso, ad un pubblico cioè dinanzi al quale è normale pronunciare discorsi: un’elegia dunque eccezionalmente recitata dinanzi all’assemblea anziché nell’appropriata cerchia (…) È stata una straordinaria iniziativa quella di Solone, di fare ricorso ad un insolito mezzo espressivo per infrangere il divieto (Ibid., p. 74)

L’accostamento ad alcuni può apparire forzato, sia per il contesto di sostenibilità digitale entro il quale operiamo, sia, soprattutto, per l’inevitabile diacronia che sovrasta i pensieri dell’interprete contemporaneo, quand’anche questi si mostri versatile e avvezzo all’analisi comparata. Tuttavia, qui, si combinano perfettamente due fattori della lingua della comunicazione politica: quello che si esplicita nel mezzo, come scrive limpidamente Canfora, e quello dell’effetto perlocutorio, ovverosia dell’effetto che l’enunciazione produce, a medio e lungo termine, in chi ascolta. In entrambi i casi, l’evento non è semplice compresenza, non è l’appuntamento sequenziale d’una rassegna ripetibile; è, anzitutto e per lo più, la premessa alla metamorfosi d’un sentimento e d’un comportamento di comunione. Il sapere che qualcosa è così e non altrimenti è rassicurante, ciò cui la gente si dispone anche in caso della rottura degli schemi o della violazione delle aspettative: un’elegia o un discorso, purché il dicente ne sia deputato, agente e, per il tramite di sé stesso e dei propri modi, esorti l’altro ad agire.

Con un altro balzo, che ogni forma di scrittura ci consente, possiamo mettere insieme – almeno a scopo d’osservazione d’analogie e differenze – le metafore del pulpito, berlingueriana e soloniana, e introdurne un’altra, quella che riguarda i tweet congiunti prodotti da Conte, Letta e Speranza per annunciare un probabile accordo sull’elezione del Presidente della Repubblica. Ne leggiamo il testo:

Ottimo incontro con (…) Lavoreremo insieme per dare al Paese una o un Presidente in cui tutti possano riconoscersi. Siamo tutti aperti al confronto. Nessuno può vantare un diritto di prelazione. Tutti abbiamo il dovere della responsabilità.

Il contesto della sostenibilità digitale, che fino a qualche riga fa avevamo dato l’impressione di trascurare, adesso s’impone come dominante, giacché il mezzo utilizzato è un social network. Si è indubbiamente presi dal desiderio di sapere se sia stata una strategia vincente. Il fatto è che il valore finale o, diversamente, l’efficacia del tweet non si può affatto classificare; la sua semantica è talmente neutrale e, in generale, la sua materia linguistica talmente indifferenziata che un analista, condannato all’estenuante prova della vaghezza, potrebbe attribuirlo all’uno o all’altro degli schieramenti, senza che l’utente se ne avvedesse. Il linguaggio della politica è sempre stato indeterminato ed elusivo, per carità, ma qui si è consumato un vero e proprio ‘delitto’: è stata fatta scomparire l’identità comune; di fatto, gli autori hanno generato un effetto esattamente contrario a quello che si proponevano di ottenere e le conseguenze della scelta di questa improvvida volontà saranno presto tangibili, manifeste nella totale smaterializzazione dell’oggetto del discorso e dei ruoli di coesistenza.

Tutto ciò che lasciamo transitare dagli ambiti digitali, dalla cosiddetta rete, è inesorabilmente sottoposto a una sorta di trasposizione retorica, subisce, in altri termini e a dispetto dell’impegno intellettuale dello scrivente, una semplificazione semantico-lessicale, cosicché i contorni delle immagini – quando queste siano presenti – sfumano; parole e sintagmi, il più delle volte, non designano oggetti. Se avessero agito diversamente, avrebbero corso il ‘rischio dell’identità’, che nessuno, a quanto pare, vuole più assumere: essere un Berlinguer o un Solone, essere immediatamente riconosciuti: è evidente che chi ha prodotto il tweet non poteva permetterselo. In assenza dell’oggetto del pensiero e dell’azione politica, gli autori stessi si sono trasformati in oggetto, scatenando, non a caso, l’ironia degli utenti e facendo passare in secondo piano il contenuto del messaggio, che avrebbe dovuto essere decisivo e dominante. Un percorso di rieducazione linguistico-digitale è caldamente consigliato.

Quando si scrive “tutti abbiamo il dovere della responsabilità”, si dovrebbe sapere per lo meno che i nomi astratti, se combinati in modo così grossolano e privati d’una storia, d’una cronaca dei fatti, d’un’esistenza fatta di piazze, battaglie sociali e rischi, creano una tale ridondanza di vacuità che né lo stupore né l’impassibilità vengono sollecitati. Il piano della percezione e, più in generale, quello dell’esperienza vengono bruscamente ignorati per dare risalto a un incognito e imperscrutabile obbligo morale (“dovere”), di cui, però, non è possibile distinguere la scaturigine. In fatto di morale o di altre parole afferenti all’astrattezza (verità, qualità et similia), il destinatario del messaggio dovrebbe conoscere la cosiddetta referenza, ovverosia quel rimando alla realtà extralinguistica grazie al quale diventa naturale collocare le parole nel mondo. Nel caso in questione, non si ravvisa alcun riferimento alla religione, alla legge o a qualsivoglia principio dell’aggregazione e tale mancanza è aggravata proprio dal congiungimento dei messaggi, che proviene da forze politiche molto ‘giovani’ e che non hanno mai dato segno di grande affinità: PD, LEU e M5S.  È bene precisare che, qui, non siamo affatto interessati alla politica come disciplina o espressione di preferenza; il criterio adottato è unicamente quello della valenza retorica d’un contenuto, per il quale neppure sul web – e soprattutto in circostanze così determinanti – si può disattendere la lezione di Cicerone, secondo il quale cinque sono i fondamenti d’un discorso efficace. Ne proponiamo una sintesi essenziale.

  • inventio: designazione dell’argomento;
  • dispositio: conferimento d’una forma alle parti;
  • elocutio: scelta delle parole e della forma dell’insieme;
  • memoria: acquisizione di conoscenza dei contenuti;
  • actio: raggiungimento dell’efficacia comunicativa.

 

C. F. Quot in partis tribuenda est omnis doctrina dicendi? (In quante parti si deve dividere tutta la dottrina del dire?)

C. P. Tris (In tre).

C. F. Cedo quasi? (Quali?)

C. P. Primum in ipsam uim oratoris, deinde in orationem, tum in quaestionem (La prima è la stessa forza dell’oratore, la seconda è il discorso, poi la questione).

C. F. In quo est ipsa uis? (In che cosa consiste questa forza?)

C. P. In rebus et in uerbis. Sed et res et uerba inuenienda sunt et conlocanda. Proprie autem in rebus inuenire, in uerbis eloqui dicitur. Conlocare autem, etsi est commune, tamen ad inueniendum refertur. Vox motus uultus atque omnis actio eloquendi comes est; earum rerum omnium custos memoria [Nelle cose e nelle parole. Ma le cose e le parole vanno trovate e collocate. Propriamente, il trovarle è l’invenzione, la seconda è l’elocuzione. Il collocamento, benché sia comune, pure sic riferisce all’invenzione, piuttosto. La voce, il movimento, il volto e ogni gesto accompagnano (il discorso); di tutte queste cose è custode la memoria)].

(CICERONE, De partitione oratoriae, I, 3, in Opere tutte di M. T. Cicerone, a cura di G. F. Paravicini, 1863,  Soc. editrice della biblioteca latina italiana, Napoli, p. 73)

Le parole hanno una potenza ricorsivo-combinatoria. In altri termini, la loro efficacia è data sia, anzitutto, dal legame con altre parole, da cui sono precedute o seguite, sia, principalmente, dal fatto che il parlante ha la capacità di utilizzare le ‘poche’ risorse di cui dispone per formulare un’infinita serie di variabili. Se, tuttavia, il “dovere della responsabilità” è introdotto e sostanziato da “ottimo incontro”, “lavoreremo insieme”, “siamo aperti”, “nessuno può vantare (…)” et cetera, cioè da coppie lessicali palliative, viene a mancare in modo traumatico il substrato semantico della comunicazione, l’inventio; e l’elocutio genera una sorta di smarrimento percettivo.

Bisognerebbe comprendere che le parole, una volta introdotte in rete, sono affidate alla materia del sembrare, costituiscono, prima di tutto, un’approssimazione di senso, uno snaturamento delle intenzioni e, spesso, sono schiacciate dal peso della quantità: privarle ulteriormente d’un rapporto col mondo rappresenta un tentativo di suicidio.

Facebook Comments

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here