Lavoro agile e obiettivi di sviluppo sostenibile: eguaglianza di genere (SDG 5)

Tra vantaggi e rischi da evitare, l'impatto dello smart working (o lavoro agile) nella direzione del quinto obiettivo di Agenda 2030: raggiungere l'uguaglianza di genere

Immagine distribuita da PIXNIO con licenza CC0

Nel quadro dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (sustainable development goal, SDGs) compresi all’interno dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, esaminiamo, in questo articolo, le possibili interrelazioni fra il lavoro agile e l’obiettivo numero 5, che prevede il raggiungimento dell’uguaglianza di genere e l’empowerment (maggior forza, autostima e consapevolezza) di tutte le donne e le ragazze (achieve gender equality and empower all women and girls), in linea con l’auspicio espresso nell’Agenda stessa per un mondo in cui ogni donna e ogni ragazza posa godere della più ampia eguaglianza di genere e in cui tutte le barriere – giuridiche, sociali ed economiche – che ostacolino tale traguardo possano finalmente essere rimosse.

Attraverso l’Agenda, l’ONU e i Paesi membri intendono, infatti, creare le condizioni perché l’eguaglianza di genere contribuisca, in modo trasversale e in un’ottica di mainstreaming, al raggiungimento dell’insieme degli obiettivi di sviluppo sostenibile, grazie all’indispensabile ruolo che la metà della popolazione del pianeta deve poter giocare in questa fondamentale partita per il futuro: pervenire a un simile traguardo, infatti, è impossibile a fronte del mancato, effettivo riconoscimento della pienezza dei diritti umani a donne e ragazze, le quali devono godere, al pari degli uomini, dello stesso livello di accesso ad una istruzione di qualità e alla partecipazione economica, sociale e politica. Se, infatti, ci dicono i dati, circa i due terzi dei paesi in regioni in via di sviluppo hanno raggiunto la parità di genere nell’istruzione primaria, in molte aree le ragazze incontrano ancora fortissimi ostacoli nell’accesso alla scuola primaria e secondaria; in Nordafrica le donne detengono meno del 20% dei posti di lavoro retribuiti in settori non agricoli e la proporzione di donne che occupano posti di lavoro retribuiti al di fuori del settore primario, sebbene in aumento, è ancora pari al 41%; dal punto di vita della partecipazione politica, in 46 paesi le donne detengono oltre il 30% di seggi nei parlamenti nazionali in almeno una Camera, segnando un progresso in termini di rappresentatività ma evidenziando, allo stesso tempo, uno scarto rilevante da colmare. La pandemia da Covid-19, infine, com’è semplice intuire, ha rappresentato un elemento di rallentamento verso il raggiungimento di livelli accettabili di eguaglianza di genere.

Quest’ultimo aspetto è confermato dal Rapporto ASviS per il 2021, che evidenzia come lo storico ritardo del nostro Paese in tema di empowerment femminile abbia rivelato aree di particolare criticità. La pandemia, infatti, ha inciso pesantemente sulla condizione femminile per quanto riguarda la più che proporzionale perdita di posti di lavoro rispetto agli uomini, mentre sono aumentati gli episodi di violenza tra le mura domestiche. Il Rapporto riporta, altresì, come il periodo pandemico abbia determinato una crescita dei carichi di cura per le donne, a causa della chiusura delle scuole e di un utilizzo non regolato del lavoro agile. Quest’ultimo è un punto che merita di essere approfondito, perché la dimensione femminile è certamente determinante per apprezzare se ed in qual misura l’utilizzo dello smart working (o lavoro da remoto) possa contribuire al raggiungimento dei diversi target dell’obiettivo di sviluppo sostenibile in materia di eguaglianza di genere, per garantire, ad esempio, piena ed effettiva partecipazione femminile e pari opportunità di leadership ad ogni livello decisionale in ambito politico, economico e della vita pubblica (5.5), dare alle donne uguali diritti di accesso alle risorse economiche (5.a) e rafforzare l’utilizzo di tecnologie abilitanti, in particolare le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, per promuovere l’emancipazione della donna (5.b).

Val la pena ricordare, in proposito, che l’articolo 18, co. 1, della legge 18 del 2017 ha introdotto il lavoro agile “allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”, mentre l’art. 14, co. 1, della legge 124 del 2015, nell’introdurre in forma sperimentale il lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni, ne evidenziava il “fine di tutelare le cure parentali”. Inoltre, la direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri n. 3 del 2017, che disciplinava la fase sperimentale dello smart working nella PA, emanava “linee guida contenenti regole inerenti l’organizzazione del lavoro finalizzate a promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti”. Era evidente, dunque, che l’aspetto conciliativo e genitoriale fosse elemento fortemente caratterizzante la nuova leva organizzativa, posto che le misure adottate fossero, altresì, da considerare utili anche al fine del monitoraggio delle politiche di genere da evidenziare nell’ambito del bilancio di genere dello Stato di cui all’articolo 38-septies della legge 196 del 2009. Insomma, il lavoro agile, come nuova chiave di organizzazione dell’attività lavorativa che destruttura il quadro tradizionale della presenza secondo orari prestabiliti, sembrava offrire un deciso contributo in termini di riorganizzazione della vita privata e familiare nel suo complesso.

Alla luce dell’esperienza vissuta nei due anni della pandemia, che ha portato con sé l’applicazione, su scala nazionale, dello smart working di natura emergenziale (svoltosi, per forza di cose, nelle proprie abitazioni), occorre chiedersi se il lavoro agile, almeno nella sua forma di risposta al contrasto alla pandemia, non abbia creato – o, più probabilmente, consolidato – una “questione femminile”, penalizzando le donne tra le mura domestiche e/o sul lavoro. Secondo uno studio del 2021, lo smart working diffuso e generalizzato ha creato le condizioni per un contesto più equo in termini di differenze di genere, contribuendo ad una maggiore qualità della vita per la grande maggioranza delle intervistate e offrendo loro, inoltre, la possibilità di migliorare le competenze tecnologiche, generando spazi per ridurre il divario di genere in materia di ICT. Il lavoro agile, secondo una rilevazione dell’Istituto Nazionale di valutazione delle Politiche Pubbliche (INAPP), è stato valutato molto favorevolmente per il 54,7% degli occupati da remoto, mentre solo il 9% giudica il nuovo assetto nettamente negativo: da notare che le lavoratrici della PA esprimono una valutazione più negativa rispetto a quelle occupate in un’azienda privata sia perché nel settore pubblico sono state implementate modalità organizzative meno “agili”, sia perché nel settore privato lo smart working era già una realtà sperimentata, in particolare nelle aziende di maggiori dimensioni, e accompagnata da consistenti investimenti in termini di dotazione tecnica e digitale.

Non mancano tuttavia, segnali di preoccupazione. Un’analisi del marzo 2021 sulla base di una rilevazione INPS indica una maggior soddisfazione degli uomini rispetto alle donne, che mostrano una propensione positiva a continuare a lavorare in smart working minore rispetto agli uomini: una concausa sembra essere la scarsa collaborazione domestica che genera un impatto negativo sulla qualità dell’esperienza di lavoro agile da parte delle donne. In un recente approfondimento dell’OCSE vengono richiamate evidenze secondo le quali anche fra le donne con un livello di istruzione elevata permane una divisione del lavoro su base di genere alla luce dell’aumentato carico di lavoro familiare (per la chiusura dei servizi educativi per la prima infanzia e delle scuole) che ha portato, rispetto agli uomini, ad una più marcata confusione dei confini lavoro/vita privata, fino a rischi di superlavoro e burnout. Inoltre, si evidenzia, se lo smart working venisse utilizzato in modo massivo per impieghi di livello più basso e non specializzato, ciò potrebbe portare ad un crescente divario retributivo fra uomini e donne. Queste in ogni caso, sono più soggette a fenomeni di isolamento di carriera e quindi minori opportunità per il proprio sviluppo professionale ove optassero per un maggior utilizzo dell’istituto. Una survey condotta dall’INAPP, infine, ha messo in luce due aspetti della transizione post-pandemica del lavoro che, andando a rafforzare disuguaglianze preesistenti, potrebbero incidere negativamente sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: a) la contrattazione familiare per il ritorno a lavoro (che ha privilegiato gli uomini) e il rischio di abbandono del lavoro da parte delle donne; b) il peso del care burden sulle donne e l’assenza di condivisione del lavoro di cura a livello familiare, che rischiano di aumentare la differenza tra lavoro retribuito e non retribuito.

Anche in un quadro così variegato, sembra, tuttavia, potersi confermare l’ipotesi per la quale il lavoro da remoto può avere effetti positivi su un ampio ventaglio di aspetti legati all’uguaglianza di genere. Da un lato, infatti, va considerato che lo smart working può migliorare le opportunità di carriera delle donne, aumentando la quantità di posti di lavoro a livello globale, abbattendo l’elemento presenza e, persino, non rendendo indispensabile trovarsi sul medesimo fuso orario. Dall’altro, deve sottolinearsi che appare ragionevole desumere (in linea, peraltro, con quanto esplicitato dagli studi citati) che squilibri e aumentati carichi di cura a danno della popolazione femminile siano in realtà legati alle misure di contenimento dell’emergenza sanitaria – e al lockdown in particolare – e alla scarsa regolamentazione di dettaglio dell’istituto del lavoro agile nella fase pandemica acuta e non, dunque, al lavoro agile in sé. Non può, tuttavia, negarsi, che il tema dello squilibrio del carico di cura sulle donne rimane centrale nel determinare il contributo positivo dello smart working per la popolazione femminile che, posta la minore partecipazione del partner maschile alla vita familiare, rischia un surplus di impegno: si tratta di un segnale che richiama la necessità di agire in un’ottica di sistema, a partire dalla diseguale ripartizione tra uomini e donne dei carichi di cura che assegnano alla donna, anche se occupata, il principale ruolo di gestore all’interno del nucleo familiare. La pandemia, in altre parole, ha ulteriormente evidenziato come il tema della cura nella famiglia non sia questione privata ma interessi, in maniera decisiva, la tenuta di un intero sistema sociale e sia sfida culturale determinante al fine di poter spiegare appieno le dinamiche da indirizzare verso l’effettiva eguaglianza di genere fra donna e uomo.

Due richiami, in chiusura, che segnano l’interesse delle istituzioni per il tema. Il primo alla nuova Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026, che affronta in modo specifico le principali dimensioni legate al riequilibrio di genere e auspica l’introduzione di flessibilità aggiuntiva per lo smart working dei genitori con figli a carico in base a criterio di età con lo scopo di bilanciare i compiti della genitorialità (una misura che potrebbe essere estesa anche nel caso di caregiver che accudiscano familiari). Il secondo al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che attribuisce al tema della parità tra uomo e donna una rilevanza rispetto a tutte le sue componenti, in linea con gli obiettivi dell’Agenda ONU e che, nell’affrontare il divario di genere come una delle dimensioni trasversali del Piano stesso, prevede che le misure dedicate allo smart working nella PA possono svolgere un ruolo di rilievo “in termini di conciliazione vita-lavoro e cambiare le modalità di valorizzazione degli individui, privilegiando il raggiungimento degli obiettivi piuttosto che la mera presenza in ufficio” e che “saranno, tuttavia, tanto più efficaci per ridurre le diseguaglianze di genere quanto più accompagnate da modelli culturali che spingono gli uomini a fruire di queste forme di flessibilità per assumersi un maggiore ruolo nei compiti domestici”.

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Dirigente dello Stato proveniente dalla esperienza dei corsi-concorso della Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA), è in servizio presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Laureato in Scienze Politiche, si è specializzato in studi europei ed internazionali ed è rappresentante per l’Italia in diversi tavoli in materia di politiche sociali presso la Commissione europea, il Consiglio d’Europa e le Nazioni Unite. Presidente del Comitato disabilità del Consiglio d'Europa dal 2016 al 2018. Già Presidente dell’associazione degli ex allievi della SNA, ha un dottorato in public management ed è da anni impegnato sul tema della riforma della P.A. Appassionato di vino e di fumetti, ha tre figliocci.

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