Tra competenze digitali e open data: come la tecnologia può aiutare nel colmare il divario di genere

Raggiungere la parità di genere è uno degli SDG fondamentali di Agenda 2030: tra competenze digitali e open data, vediamo le opportunità delle tecnologie nel colmare il divario di genere nella Giornata Internazionale della Donna

Nella giornata di oggi, come ogni anno, viene celebrata la Giornata Internazionale della Donna. Il tema lanciato per quest’anno dalle Nazioni Unite contiene al suo interno un messaggio chiaro, volto a sottolineare gli sforzi delle donne nel raggiungere un futuro più equo e inclusivo di quello attuale e di evidenziare, allo stesso tempo, il loro grande apporto nel contribuire al recupero del mondo afflitto dalla pandemia.

Ma è proprio l’emergenza sanitaria ad aver evidenziato ancora una volta le disparità di genere che continuano a persistere – anche – nel mondo del lavoro: stando ai dati forniti dall’Istat, solo in Italia, nel mese di dicembre 2020 l’occupazione ha avuto un decremento di 101mila unità, la cui stragrande maggioranza ha interessato proprio le donne (-99mila unità).

Espandendo la visione all’Unione Europea, le donne sono in generale meno presenti sul mercato del lavoro (occupate al 67,3%) rispetto agli uomini (occupati al 79%), con un divario occupazionale che nel 2019 si è attestato all’11,7%. Ma non solo: anche la disparità salariale, nel contesto lavorativo, continua ad essere un problema molto importante: sempre nell’UE, infatti, le donne hanno guadagnato in media il 14,1% in meno all’ora rispetto agli uomini.

Abbiamo visto, qui su Tech Economy 2030, come l’utilizzo delle tecnologie e l’innovazione digitale possano, quando fondate su principi e valori corretti, contribuire a diminuire le disuguaglianze e con esse le discriminazioni, così come potrebbero portare ad un miglioramento delle condizioni dei lavoratori, anche in termini di inclusione. Giungere alla parità di genere è, allo stesso modo, uno degli obiettivi fondamentali per perseguire uno sviluppo sostenibile: come possono – e devono – essere sfruttate le potenzialità delle tecnologie e dell’innovazione per raggiungere questo traguardo? Lo abbiamo chiesto ad alcuni componenti del Comitato di Indirizzo del Digital Transformation Institute.

Le competenze digitali per colmare il divario di genere

Disoccupazione, aggravio dei carichi familiari e aumento della violenza domestica: questo il prezzo pagato dalle donne a causa del Covid”, spiega Concetta Lattanzio, Direttore CSR di Engineering. Una tremenda eredità, quella dell’emergenza sanitaria, che sembra però poter trovare giovamento nell’utilizzo di quegli strumenti tecnologici la cui diffusione accelerata può essere considerata figlia dello stesso contesto pandemico: “una marginalità fortunatamente contrastata dalla tecnologia, che per molte donne (purtroppo non per tutte…) ha rappresentato uno strumento di inclusione, di mantenimento del lavoro, di accrescimento delle competenze, di creatività e di esercizio della leadership. Ma la parità di genere ha bisogno di discontinuità culturali, di forzature organizzative e di rivoluzioni pedagogiche. E la competenza digitale e l’accesso diffuso alle discipline STEM possono certamente funzionare da acceleratori, aiutando a colmare il divario che colloca l’Italia al 25º posto in Europa (su 28 Paesi) nella parità digitale di genere.

E questo, è chiaro, è un problema importante. Se è infatti vero che la trasformazione digitale offre gli strumenti, sempre più centrali in molteplici ambiti nel contesto attuale, è altrettanto vero che per governarli e trarne i potenziali vantaggi e benefici – anche in termini di inclusione – è necessario possedere le giuste competenze, che permettano a tutti di svolgere un ruolo da protagonisti nel radicale cambiamento in atto. Continuare nella direzione attuale, al contrario, non solo non permetterebbe alle tecnologie e l’innovazione di contribuire a colmare il divario, ma anzi, rischierebbero di accentuarlo ulteriormente.

Questo è chiaro a Tiziana Catarci, Direttrice del DIAG alla Sapienza, Università di Roma: se infatti “la pandemia ha fatto emergere e amplificato l’importanza del digitale e delle tecnologie nella nostra vita quotidiana (lavorare, studiare, visitare una mostra, ordinare una pizza ecc.) e il loro ruolo chiave nell’affrontare le grandi sfide (la salute pubblica, la scoperta e produzione dei vaccini e di nuove cure ecc.), in Italia, ancora più che nel resto d’Europa, mancano drammaticamente le competenze digitali, sia di base che specialistiche. Della popolazione occupata, infatti, meno del 4% è una/o specialista ICT. Di questo 4%, meno del 20% è costituito da donne; d’altra parte, le studentesse complessivamente iscritte a corsi di laurea del settore ICT non raggiungono ad oggi il 15% delle iscrizioni totali. Questo a fronte di migliaia di posti di lavoro disponibili e non coperti nel settore (almeno il 35% del totale secondo stime recenti) e, sul versante opposto, a un drammatico aumento della disoccupazione giovanile e femminile causato dalla pandemia. La vera opportunità del digitale offerta alle donne è rappresentata proprio dall’acquisizione di competenze specifiche nel settore che le metterebbero in grado di essere le artefici della trasformazione (rivoluzione) in atto, senza essere più relegate al ruolo di spettatrici. Inoltre, aumentare la presenza femminile in questo ambito avrebbe effetti nettamente positivi per l’economia, stimata in una crescita del PIL europeo pro-capite del 2,2-3% nei prossimi 30 anni. Già dal 2015 uno studio chiave condotto da McKinsey, ‘Why Diversity Matters’, aveva mostrato che le aziende con una maggiore presenza femminile nei ruoli chiave hanno una probabilità del 15% maggiore di registrare fatturati superiori alla media nazionale: il valore della diversità!”.

Qui, però, si può aggiungere un altro elemento. Se è infatti indubbio che alcune trasformazioni abilitate dalle tecnologie, in primis lo smart working, abbiano un impatto potenziale straordinariamente positivo per le donne – non solo nel contesto attuale ma anche nei prossimi anni –, un grave errore, per Tiziana Catarci, sarebbe considerarne i benefici come esclusivi per il genere femminile. “Va stigmatizzato l’approccio che porta a dire che la possibilità di lavorare da remoto, offerta dalle tecnologie, è uno strumento ‘per le donne’ perché aiuta la conciliazione di vita e lavoro. Questo approccio non fa altro che perpetuare lo stereotipo per cui sono le donne che devono farsi carico delle attività di cura e trovare il modo di ‘conciliare’. Lo smartworking è uno strumento importantissimo per ‘le persone’, sia uomini che donne”.

Quale aiuto dai dati aperti?

Il Global Gender Gap report 2020 riporta un dato piuttosto disastroso per l’Italia, che si posiziona al 76º posto, peggiorando la situazione rispetto all’anno precedente. Sicuramente la pandemia ha contribuito a esacerbare uno scenario già non incoraggiante per il nostro Paese. Proprio di recente, in un dibattito televisivo si discuteva del fatto che per superare vecchi retaggi culturali, vi sia la necessità per le donne di essere più consapevoli del ruolo che potrebbero rivestire nella società”, spiega Giorgia Lodi, tecnologa presso l’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR. E per aumentare la consapevolezza rispetto a un tema ed un obiettivo così importante, tanto da essere parte integrante degli obiettivi di sviluppo sostenibile di Agenda 2030, è sempre più necessario sfruttare le potenzialità di una società, oggi più che mai, intrinsecamente legate alle tecnologie.

Sentendo queste parole, e lavorando nel settore dei dati, mi sono chiesta se la maggiore apertura dei dati sul tema potesse contribuire ad analizzare meglio la situazione da diverse prospettive, economiche, sociali, educative. Ho provato quindi a cercare nel nostro catalogo open data dati.gov.it, che vanta più di 44.000 dataset, con diverse parole chiave, vista la recente grossa novità del catalogo: a) ‘gender gap’: esce un dataset del 2019; b) ‘donna’: escono 26 dataset, alcuni dei quali non pertinenti rispetto al tema, ma diversi sul differenziale salariale tra uomini e donne, tutti riferiti a un periodo temporale che arriva fino al 2011 e non più aggiornati dal 2015; c) ‘parità genere’ (e sue varianti): 0 dataset; d) ‘equità’: 5 dataset, uno interessante sul bilancio di genere, aggiornato all’anno scorso e in PDF. Insomma: abbiamo ancora tanto da fare se vogliamo rendere la società più consapevole su un problema piuttosto evidente e che può minare il progresso del nostro Paese.

D’altro canto, conclude Stefano Epifani, Presidente dell’Istituto, “come per molti altri argomenti il tema va affrontato da almeno tre angolazioni. In primo luogo, quella della consapevolezza. Spesso a generare veri e propri bias interpretativi è la mancanza di quella consapevolezza necessaria ad inquadrare il problema nel modo corretto. Troppo spesso – anche da parte di chi se ne occupa – si guarda alla dimensione ideologica e si rischia di perdere di vista quella sistemica. In secondo luogo, quella delle competenze, perché una volta acquisita contezza delle dimensioni del problema è necessario sviluppare nelle istituzioni, nelle aziende e nelle persone competenze specifiche. La battaglia per la parità (non solo di genere, peraltro) non si vince a colpi di ideologia, ma di diritto, di linguistica, di informatica. In ultimo, quella delle azioni. Servono azioni concrete da programmare tanto per favorire il cambiamento quanto per renderlo strutturale. Sono due fasi distinte, e vanno considerate come tali. L’esempio più classico è quello delle “quote”: strumento importantissimo per indurre un cambiamento ma eliminabile (e da eliminare) quando tale cambiamento sarà consolidato.

Per tutte e tre queste angolazioni il ruolo della tecnologia è determinante ed ancor più determinante è guardarvi in modo consapevole ed orientato alla sostenibilità. È indubbio che la tecnologia digitale possa essere strumento di integrazione sociale. Ma perché lo sia è necessario progettarla in modo corretto, il che vuol dire inclusivo by default. E ciò richiede competenze diffuse sia in chi si occupa di analisi che in chi sviluppa le soluzioni, che senza cognizioni specifiche rischia di incappare – consapevolmente o meno – in quei bias che sono tanto più pericolosi quanto più non ci si aspetta che, talvolta, vengano da un algoritmo. Tendiamo a dimenticare che gli algoritmi sono realizzati da esseri umani, ed addestrati su decisioni prese il più delle volte da esseri umani. E da questi, quindi, possono essere condizionati. Ragionare in termini di sostenibilità digitale e guardare gli algoritmi ed alle tecnologie digitali in generale come strumento di inclusione ed equità è un passaggio fondamentale per la parità di genere”.

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