Open source, università italiane, e PMI

In questi anni che ho trascorso nell’università pubblica, durante il mio iter di studi mi sono accorto di un fattore che caratterizza la gran parte dei corsi: sono vecchi. E per vecchi non intendo quel tipo di corso che odora sempre un po’ di naftalina come Fisica, o Analisi; intendo proprio quel tipo di discipline tecniche piuttosto recenti, riguardanti anche in maniera meno stretta il percorso informatico che ho scelto, delle quali i docenti si curano riguardo il corso ma non riguardo il mantenere un programma di studi effettivamente aggiornato.

La cosa che ho notato infatti è che, nonostante io negli ultimi anni abbia sviluppato una notevole attitudine per gli argomenti trattati, e abbia visto come si è evoluta la materia, in alcune discipline è totalmente assente il concetto di aggiornamento, non riguardo concetti marginali dei quali lo studio non gioverebbe, ma che concerne quegli aspetti di alcune materie sui quali l’open culture ha avuto un’impatto notevole e assolutamente non trascurabile, soprattutto per un laureando.

Università inadeguate

Quello che dovrebbe essere un percorso che porta dai libri all’impiego quindi, viene sostituito da un percorso didattico fine a sé stesso, in cui non viene minimamente menzionato l’open source se non da professori illuminati che hanno compreso il cambiamento radicale avvenuto soprattutto nel modo di fare ricerca grazie ai formati aperti e all’avvento del copyleft: gli studenti quindi si trovano ad essere istruiti su qualcosa che li aiuterà solo in parte, ma soprattutto su concetti vecchi, che prevedono una gestione dei progetti gerarchica, verticale, e soprattutto proprietaria, in cui non conta assolutamente niente il feedback esterno.
Posso prendere come esempio il mio corso di Ingegneria del Software: il professore è stato veramente bravo ad illustrarci i vari aspetti della materia, e personalmente ho accresciuto la mia competenza nel campo della risk analisys sui progetti software, tuttavia arrivati al punto della gestione delle risorse su un progetto attraverso metodi come COCOMO, ho visto che a mio parere è stato fatto un salto a piè pari. C’è stata una crasi incredibile su tutto ciò che invece avremmo dovuto imparare a conoscere, ossia la pianificazione di risorse in modi nuovi che non solo sono alternativi ai più blasonati, ma sono anche concettualmente diversi e quindi non superflui per uno studio accademico. Ciò che emerge dunque è proprio un’inadeguatezza del sistema universitario, fatta eccezione per alcuni insegnanti più avanguardisti, che tuttavia non possono fare tutto da soli.

Il punto è che finchè sei all’università, certo, va bene. Ma più oltre, c’è qualcos’altro. C’è il mercato del lavoro che richiede preparazione e non ha tempo per formarti sui nuovi processi.

Il danno alla PMI

Università? Ma che ce frega, ma che ce ‘mporta. Finchè lo studente si trova preso nella morsa della logica proprietaria, da professori che insegnano su e per tecnologie chiuse, a individui poco raccomandabili che occupano poltrone di rilievo e che continuano a porre lavori svolti dagli studenti (come le tesi stesse) sotto un copyright stringente per semplice campanilismo e utilitarismo becero, non solo sarà la matricola stessa a non progredire verso uno stato mentale più evoluto in cui vengano contemplate soluzioni aperte nel corso di una consulenza, o una licenza open source per il proprio codice, financo il formato aperto per un documento di lavoro, ma addirittura sarà il mondo del lavoro, il sistema di imprese di un paese stesso a subirne le conseguenze: se infatti le grandi aziende possono permettersi di formare qualche dipendente in più sulle nuove problematiche, e sulle nuove soluzioni a vecchie problematiche, purtroppo la PMI sarà sempre in crisi di fronte al fatto di avere davanti a sé una serie di candidati tecnicamente non pienamente sufficienti, non per scelta ma per semplice inadeguatezza del sistema d’istruzione (anche ad alti livelli).

A quel punto mettersi in gioco con una strategia open source diventa più difficoltoso, ed il TCO di un processo simile sale a livelli strabordanti per il semplice fatto che l’ormai dipendente non è stato formato a dovere sui nuovi processi di sviluppo, sull’accoglienza del feedback dalla comunità, sul come gestire un numero di programmatori in azienda e contestualmente un pool di contributori volontari sullo stesso ramo di development.

Olé, la frittata è servita signori. Deve arrivare alle università la domanda di personale formato con un’ottica nuova; il fatto che gli atenei pubblici siano la scuola e la dimora del closed source è qualcosa da debellare assolutamente.

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2 COMMENTS

  1. Non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, nell’universtià che ho frequentato l’open source era ovunque. Usavamo solo Linux+gcc, solo librerie libere e il corso di calcolo numerico era con octave invece che con matlab.

    Senza contare i seminari riguardanti Linux, GNU, come contribuire all’opensource e le proposte di tesi che consistevano nel creare moduli per il kernel linux/moduli per apache/lavorare su gcc etc.

    Da amici che hanno frequentato altre facoltà posso dire che anche da loro era più o meno così.

    • Complimenti, io invece negli atenei che ho preso in esame riguardo questo temi ho visto soltanto morte e distruzione.

      Anche da noi c’è molta spinta su Linux, ma solo alla fine del percorso, quando ormai la frittata è fatta e lo studente non sa veramente dove mettere le mani (che poi, a volte, anche qualche assistente è disorientato).

      Anni fa la situazione era diversa, adesso purtroppo è addirittura peggiorata.

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