Morbidezza è una di quelle parole che, se le pronunci, suonano bene, ma quando le vedi scritte sono brutte. Se corri veloce con l’occhio, potresti anche leggere “mondezza”, perché la mente inganna, e tutto ciò che finisce in “ezza”, ce lo rimanda come sporco, essendo l’idea di schifezza più diffusa di quella di tenerezza. È una questione di numeri e di esperienza.
Eppure la morbidezza è uno stato al quale bisognerebbe tendere.
Se siamo morbidi, siamo capaci di muoverci nel contesto senza adattarci o diventare tutt’uno con esso. “Siamo nelle cose” senza restarci sotto (perché le cose pesano).
Se siamo morbidi, sappiamo che la rigidità del perfezionismo porta più errori che successi, quindi è meglio avere tra le mani un risultato soddisfacente al primo colpo e perfettibile al secondo.
Se siamo morbidi, siamo capaci di muoverci nel tempo e nello spazio perché sappiamo che potremo sempre tornare al nostro tempo e al nostro spazio portandoci dentro quel che abbiamo imparato, senza paura che i confini che abbiamo deciso di avere – perché i confini ce li diamo anche quando ce li facciamo imporre – crollino all’improvviso.
Il nostro sguardo sui confini sarà però modificato, se saremo morbidi. Forse li metteremo in discussione, i confini, forse no.
Un grande errore di questo tempo è pensare che gli esseri umani debbano tendere per forza al cambiamento. Ma il cambiamento – quello vero – ha una dimensione radicale che non tutti sono pronti ad accogliere.
Le stesse organizzazioni, pensiamo a molte aziende, faticano a immaginare il cambiamento come un obiettivo vicino. E così il cambiamento rimane nelle intenzioni, spesso agite male e con grandi danni sui rapporti di lavoro, sulle dinamiche professionali e sui processi produttivi. Se non si sta meglio, se non si è più soddisfatti, se non si lavora meno, cambia tutto ma non cambia niente.
La morbidezza è una buona chiave per avvicinarsi al cambiamento partendo da ciò che siamo capaci di “sopportare”, come singoli o come organizzazioni.
È la misura della nostra capacità di carico, insomma. E deriva un po’ dalla nostra storia, un po’ dalla nostra indole, un po’ dalle scelte che abbiamo deciso di fare mentre continuiamo a camminare nella vita.
Una buona immagine della morbidezza è quella della famosa poltrona Poäng di Ikea, che qualcuno ricorderà molestata da un braccio meccanico che testava quante sollecitazioni potesse reggere Poäng, nel suo ciclo di vita di poltrona.
Ecco, la vita, anche quella professionale, è il braccio meccanico al quale noi, come tante poltrone Poäng, non possiamo sottrarci, perché siamo nati per muoverci sapendo che oltre un certo limite non possiamo andare (e cambiare). Eppure ci muoviamo (e cambiamo) comunque e senza paura perché sappiamo che siamo fatti ANCHE del nostro limite.
Altrimenti saremmo uno sgabello facile da montare ma tanto, tanto precario. Roba da cambiamento radicale.
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