Sulle competenze tecniche

Ho letto il saggio di Abravanel e D’Agnese La ricreazione è finita. Il saggio discute l’insieme dei temi legati alla scuola, all’università, alla formazione dei giovani, al mercato del lavoro e, in generale, allo sviluppo delle competenze e delle professionalità necessarie al nostro paese. Concordo con diverse osservazioni proposte dagli autori. Ma in questa sede vorrei parlare di un aspetto sul quale dissento.

Secondo gli autori, ciò che conta nello sviluppo delle moderne professionalità sono i soft skills, cioè la capacità di lavorare in gruppo, il problem-solving, la capacità di comunicazione, l’etica del lavoro, …

Indubbiamente, una persona che entra nel mondo del lavoro deve avere e continuamente sviluppare questi skills. Ma in questo saggio, come in altri testi che ho recentemente letto, questa posizione in linea di massima condivisibile viene estremizzata. Si dice, nei fatti, che le “competenze tecniche” non contano molto. Ciò che servirebbe veramente sono per l’appunto i soft skill.

Dicono Abravanel e D’Agnese:

… quei posti non restano vacanti perché le scuole non sfornano abbastanza giovani con le giuste specializzazioni, ma perché non si trovano abbastanza ragazzi che abbiano le soft skills necessarie.

È solo una delle tante affermazioni dello stesso tenore ed è uno dei tanti casi di estremizzazione di una posizione in sè ragionevole, ma che viene distorta e artificialmente ampliata, divenendo alla fine sbagliata e fin controproducente.

Generalizzando, è l’errore che si commette quando si fanno divenire sufficienti delle condizioni che sono solo necessarie.

Certamente, questo artifizio retorico è utile per portare all’attenzione dei lettori uno specifico tema che si ritiene importante (in questo caso, i soft skills). Ma si tratta comunque di una distorsione e di una assolutizzazione del pensiero che è necessario correggere.

Soft skills e competenze tecniche

Nel caso specifico, è indubbio che oggi più che mai servano soft skills. Ma questo non giustifica quel che dicono Abravanel e D’Agnese. Per spiegarmi, propongo qualche esempio nel mio settore dove, secondo l’Unione Europea, nei prossimi anni si avrà una mancanza di molte centinaia di migliaia di professionisti che, ahimè, non stiamo formando.

Big data

È indubbio che nel mondo dei big data e degli analytics sia necessario lavorare in modo multidisciplinare, in gruppo, interagendo con clienti e partner, comprendendo i problemi del dominio applicativo. È certamente vero che non si può pensare di affrontare il tema semplicemente con un “push tecnologico”, cioè semplicemente comprando tools e strumenti per “big data”.

Ma detto questo, sarà mai possibile che chiunque passi per strada, purché abbia soft skills, si possa mettere ad analizzare informazioni complesse, sfruttando tecniche e strumenti particolarmente innovativi che oggi pochi conoscono? E non è questo uno dei settori dove maggiore è la richiesta (e il bisogno) delle aziende?

Internet delle cose

Oggi il digitale entra in tutti i processi e servizi: industrie manifatturiere, utilities, industrie chimiche, sistemi di logistica, grande distribuzione, …

Chi progetta questi sistemi? Chi li sviluppa? Chi li gestisce?

Chi ha soft skills?

E non si dica che queste figure sono minoritarie. Forse che gli operatori che devono gestire in campo sistemi di questa complessità (si pensi per esempio a chi fa assistenza o manutenzione di reti elettriche) possono essere solo persone dotate di soft skill senza alcuna (o con una debole) competenza tecnica?

Produzione, logistica, marketing digitale e commercio elettronico

Oggi per tutte le aziende italiane è vitale capire come sfruttare il digitale in tutta la catena del valore, dall’ideazione di un prodotto, alla sua produzione, distribuzione, promozione, vendita e al successivo supporto ai clienti. Chi fa questi lavori? “Persone di buona volontà” con ottimi soft skills?

Ma non dovevamo puntare a produzioni e processi di qualità?

Capisco l’intento di Abravanel e D’Agnese e in linea di principio lo posso anche condividere. Ma è eccessivo, sbilanciato e va in controdentenza con quello che ci diciamo da tempo e cioè che nel nostro paese abbiamo bisogno di mantenere e sviluppare sistemi produttivi ad alto valore aggiunto, visto che quelli a basso valore sono facilmente trasferibili in paesi con più basso costo del lavoro. Queste professionalità si basano su sofisticate e distintive competenze “tecniche”, secondo tutte le accezioni che questa parola può avere.

In generale, quanto discusso non vale solo per le moderne tecnologie (digitali e non). Non è forse vero che una delle principali preoccupazioni di tante associazioni imprenditoriali è la progressiva perdita di professionalità artigiane uniche a livello mondiale? Non sono queste “competenze tecniche” sviluppate nel corso di secoli dai settori più peculiari e unici del “Made in Italy”? Pensiamo di sostituire un mastro artigiano di Burano semplicemente con una persona che “lavora bene insieme agli altri”? Pensiamo forse che l’arte del settore serico comasco si possa facilmente rinnovare tramite persone che sanno “comunicare in modo convincente”? Non è forse vero che produzioni italiane critiche come il vino e l’olio di oliva sempre più richiedono competenze tecniche di elevatissimo livello? La sinergia tra Napa Valley e University of California, Davis, non insegna nulla?

Una considerazione sui corsi universitari

Riportavo qualche mese fa qui su Medium alcuni dati piuttosto chiari.

In primo luogo, ci sono facoltà e corsi di studio per i quali è facile trovare lavoro e altri per i quali non è così. Ci potranno anche essere ingegneri o medici con soft skills scarsi, ma guarda caso mediamente questi profili trovano lavoro molto più facilmente di un laureato in materie giuridiche o letterarie.

In secondo luogo, guardando i dati disponibili sulle immatricolazioni non si può che restare basiti (dati Alma Laurea/MIUR):

 Università

Questi numeri rimandano ai laureati che oggi vediamo affacciarsi nel mondo lavoro. Veramente pensiamo di aver bisogno di tutti questi laureati in materie umanistiche e politico-sociali? E veramente pensiamo che se non trovano lavoro è perché non hanno sufficienti soft skills? E ancora, come fare innovazione senza capire quali sono gli spazi del possibile, cioè senza sapere ciò che le moderne tecnologie e metodologie permettono di fare?

In generale, stiamo formando tutte le persone che oggi sono richieste dalle imprese del paese?

In conclusione …

La mia posizione può essere riassunta nei seguenti punti:

  1. È indubbio che ci sia uno sbilanciamento forte nella distribuzione dei giovani rispetto ai diversi percorsi di studio e professionali. Inutile stupirsi se molti di essi non riescono a trovare occupazione e se, allo stesso tempo, molte aziende non sempre riescono a reclutare i giovani di cui hanno bisogno.
  2. Le competenze tecniche non sono da sole sufficienti a garantire una adeguata professionalità, ma sono sempre più necessarie in tanti settori della nostra economia.
  3. I soft skills sono certamente necessari, ma al tempo stesso ben lungi dall’essere sufficienti.
  4. Certamente, abbiamo un mercato del lavoro che troppo spesso non premia, riconosce e valorizza competenze tecniche e, in generale, professionalità di qualità. Ma questo prescinde dai soft skills e ha più a che fare con la natura e struttura del nostro sistema imprenditoriale e — questo sì in linea con quel che dicono Abravanel e D’Agnesi — con il basso livello di laureati presenti nelle imprese e nella nostra società in generale.

Da qui dobbiamo ripartire.

 

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