Top Trends del Social Media Marketing»: quanti ne avrete letti ormai di pezzi così, negli ultimi giorni? Ognuno con la stessa pretesa: essere The Ultimate One, quello definitivo.
Ok, un ultimo sforzo: rileggetevi – non sia mai vi fosse sfuggito – l’ultima ricerca di Morrison Foerster. Ha un doppio vantaggio:
- Anziché dare, un po’ pomposamente, le tendenze di ciò che sarà, dipinge un accurato punto della situazione su ciò che è stato nel 2015. The State Of Social Media Marketing è, infatti, il quadro rappresentato dall’infografica che ne riassume le conclusioni, nonché il titolo dell’approfondimento realizzatone da MarketingProfs;
- Richiama con voce ancor più alta l’attenzione su dati che, se in sé certo non stupiscono, d’altro canto sorprendono proprio in quanto film già visti. Troppo. Che contavamo ormai, all’alba del 2016, di esserci lasciati alle spalle. E invece no.
Il problema? Nell’«engagement». Che non c’è. O forse ci sarebbe pure: se solo i brand rispondessero. A che cosa? Alle domande degli utenti: richieste d’assistenza o semplici informazioni, lamenti e complimenti, odiosi commenti degli haters così come i saluti di «Buongiorno!» o «Auguri» dei fan più affezionati. Il tutto mentre i principali social parrebbero attrezzarsi sempre più con strumenti nativi per agevolare le aziende nel delicato compito del Social Customer Service. Le intenzioni ci sarebbero – forse. Perché allora qualcosa non quadra?
I numeri. Aziende su social: tante e…
- … Pronte a spendere, tempo e denaro. In misura maggiore, almeno, di un tempo. 7 le piattaforme social che le maggiori compagnie B2C nord-americane presidiano in media. Nel 66% dei casi è presente e operativo un social media team dedicato. 13,2% sarebbe la fetta di budget dedicata alle attività di Social Media Marketing nell’anno trascorso. Cifra destinata ad aumentare, se consideriamo che solo le compagnie B2C avrebbero pianificato di investire oltre 100 miliardi di dollari, in specie, nel Social Media Advertising di qui al 2017: con investimenti ponderosi anche nel Digital Marketing globale, che andrebbe così testa a testa, lato budget e impegno, col TV Advertising. A meno di non superarlo proprio.
- … Meno pronte a rispondere. Il 90% delle imprese dà ormai quasi per scontato di usare i social media per rispondere alle richieste dei clienti. In teoria. Nella pratica, però, più della metà della clientela che ha postato segnalazioni con richieste di assistenza o rimostranze per una bad experience vissuta – ben il 58% – non ha mai ricevuto alcuna risposta.
Prendiamo Twitter, piattaforma da sempre associata, almeno idealmente, al Social Customer Care, non fosse che per la (presunta) presupposta velocità del dialogo previsto dalla piattaforma. Bene, la ricerca ci dice che, proprio su Twitter, il “fior fiore” delle aziende passa oltre due terzi della giornata – il 70% del tempo speso in cinguettii – trasmettendo, non dialogando, conversando. Facendo i broadcaster, non coloro che, essendo su social, dovrebbero – come vuole il principio delle «3 C» – «Comunicare-Coinvolgere-Curare». Comportandosi, insomma, come se stessero facendo spot in TV – ché di tweet di «offerta», «volgarmente pubblicizzata», si tratta. Con la più vecchia delle forme 1.0 di emissione e trasmissione di un messaggio (chiamarla comunicazione ci pare troppo buono). Messaggio che poi non a caso resta lì: lettera morta. - … Tanto poco pronte, che «se proprio devo (rispondere)… Keep calm!». Quando hanno ritagli di tempo libero, o proprio non possono evitare di rispondere al cliente, se la prendono comoda. 9 ore il tempo medio: ancora oggi, con tutti i tool, software, sistemi sempre nuovi, talora sin troppo sviluppati e automatizzati, di gestione del Social CRM messi a disposizione da client esterni e dalle stesse piattaforme social.
Coi retailer poi la percentuale sale ancora: sino all’83% di domande che restano prive di risposta. Se proprio sei fortunato, mettiti comunque l’anima in pace. Anzi, vattene a dormire se è tardi. I tempi? Circa 12 ore. - … Con scarso engagement. Ma guarda un po’ che strano caso! «Di contro a una presenza sempre più massiccia dei brand su social», spiega lo studio, «nonostante un loro uso sempre più intenso, cala sensibilmente la percentuale di interazione».
Colpisce soprattutto il dato relativo a Instagram, cui sempre più aziende hanno guardato – accade in tutte le mode, che si sa però quanto passeggere possano essere – come una sorta di refugium peccatorum capace di render oro ogni cosa toccata, una Mecca da conquistare a qualunque costo e con qualsivoglia logica – quelle «illogiche» per prime, ça va sans dire. Trattando Instagram, ad esempio, non come un social network, ma come una mera piattaforma di broadcasting: una «tv satellitare», al massimo un po’ new age, da cui trasmetter a manetta foto e video. Senza mai risponder ai commenti degli utenti, che magari invece proprio lì potrebbero davvero fiorire, numerosi e fertili. Risultato? -2% d’interazioni tra follower e brand tra il 2014 e il 2015. Con un passaggio dal 4,2% al 2,2%.
Un panorama in decisa, dolorosa dissonanza con quella che invece è, senza dubbio, la vera nuova tendenza del Marketing, e del Digital Marketing, non solo per il 2016: confermata da esperti e studiosi, guru e aziende che ce l’hanno fatta proprio grazie a certe riforme della loro mentalità.
Social Engagement è la parola d’ordine di un nuovo «Business Model», che ricolloca un termine – abusato come certo è engagement – in un contesto più maturo e consapevole, innervandolo così di linfa vitale nuova e disruptive. Social Engagement è la chiave che apre le porte alla realizzazione del Social Selling – business, dunque, per le aziende – puntando non sul fattore selling, ma su quello social: rendendolo cioè Social Helping, improntando ogni attività del brand – online e offline, nel marketing come nel settore vendite o customer care – all’assistere, aiutare, quale chiave del vendere.
Vuoi vendere? Aiuta! Sell? Help! #SellHelp, come siamo soliti sintetizzare. Il tanto ambito ROI su social media è responsabilità: è un fatto di Cuore. Sta nel quanto e quanto a lungo tu – brand o persona – sia responsabile, quanto tu metta in gioco il cuore e tutto te stesso per aiutare, soddisfare al meglio le esigenze del tuo cliente-amico – della Persona che hai davanti. «Sono utile? Dunque vendo». Di questo nuovo modello di business il Social Engagement è KPI fondamentale: Customer Experience, Passaparola e Social CRM impeccabili le parole d’ordine.
«Social Engagement May Be More Important Than Marketing», ha dichiarato in una recente intervista al MIT Sloan Management Review Carlos Dominguez, Presidente e COO di Sprinklr, compagnia USA di Social Media Management che, tra i propri clienti, annovera nomi TOP come Microsoft, Nike, Gap, e che come motto ha «Ecco come i grandi marchi creano esperienze che i clienti amano».
Il punto è proprio questo. «Fammi innamorare, sarò tuo cliente!»: questo e solo questo chiede il consumatore al brand. Perché il Nuovo Marketing è «relazione con la rete».
«Il Marketing oggi non riguarda quello che un’azienda dice», spiega Dominguez, «ma quello che i clienti dicono dell’azienda». Verità, trasparenza, autenticità. «Prendi qualcuno che ha un problema – un cliente che ha vissuto una brutta esperienza: se riesci a soddisfarlo, a fartelo amico da nemico che era, cambia il mondo. Purtroppo pochissime aziende guardano la realtà con queste lenti».
Inutile pertanto registrare ogni giorno l’avvento di uno strumento nuovo, anche interno a Facebook o Twitter, per una facilitazione del Social CRM. Eventi peraltro notevoli, degni in sé di attenzione e cura: come, nel caso delle Facebook Pages, le nuove funzionalità della messaggistica privata, quasi ormai dedicata al social caring, tra badge pubblicamente premianti le Pagine «very responsive to messages» – con icona di «elevata reattività ai messaggi» – e nuovo layout, con scheda del cliente e storico delle relazioni con lui intrattenute sinora. Novità che, non a caso, hanno attirato brand come Hyatt, Spritz e Conversocial a convergere i loro sforzi di social caring via Facebook su Messenger. Senza contare la news di neppure una settimana fa, lanciata da TechCrunch e ripresa da The Next Web: Facebook avrebbe dato accesso ad alcuni sviluppatori per creare chat bot, «bot interattivi», «dipendenti virtuali» in grado di rispondere, via Messenger, alle richieste dei clienti, fornire informazioni, effettuare operazioni come acquisto e pagamento.
Tutto bello ma, dal nostro punto di vista, tutto inutile se resta mera operazione di business, di quelle old-style: ennesima espressione della volontà del social di Zuckerberg di mantenere l’utente entro la piattaforma, togliendogli il bisogno di ricorrere altrove per soddisfare le esigenze proprie e del cliente. Peccato che qui, a monetizzare, sia alla fin fine come al solito Facebook: non le aziende, tantomeno i clienti. Che potranno anche forse esser gestiti – se baciati dalla loro buona stella – grazie ai tool più avanzati e innovativi. Pagando pegno però poi, magari, alla seconda o terza richiesta, con un message in a bottle destinato a rimanere ignorato.
Una Ferrari parrebbe, in sintesi, aggirarsi all’alba di questo 2016. A guidarla però, potenzialmente, c’è Mark Zuckerberg. A farne le spese? Le aziende: che tenteranno – malauguratamente – di rifarsi altrove. Sui clienti.
E che m’importa allora se mi hai «gestito» pure bene una volta o due, ma come un ticket, preso, smaltito e buttato? Se poi non ti «ri-cordi», col Cuore, di me?
Gestisci il problema, non la persona: quella va curata, ingaggiata sempre. E non alzarti, azienda, senza aver dato il buongiorno a ognuno dei tuoi clienti: uno per uno, chiamandoli per nome.
Chissà, magari basta questo – «tanto-poco» in apparenza, «tanto-tanto» invece in realtà – per farli comprare da te per sempre.
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