Distruttori digitali o trasformatori digitali? Bella domanda!

Mi sono occupato di digital negli ultimi 16 anni, partendo dal naturale inizio legato a Internet e al web marketing, e poi man mano ho fatto un percorso grazie al quale mi sono spostato su tanti altri temi in tempi assolutamente non sospetti. Per questo quando oggi sento parlare diffusamente di digital transformation o di digital disruption da un lato non posso che essere contento di tanta attenzione ma dall’altro sono sempre un po’ perplesso per come tutto questo viene percepito sull’onda della moda.

Infatti non posso non notare che tanti progetti che usano la tecnologia ancora oggi sono di breve periodo, notiziabili e senza un piano con un orizzonte temporale medio-lungo su ciò che avverrà dopo, anche e soprattutto a livello di impatti sull’organizzazione. Nessuna vera trasformazione infatti avviene davvero in poco tempo e solo con un manipolo di arditi e, se poche persone possono già fare la differenza, solo una cultura diffusa a tutti i livelli può diventare reale cambiamento.

Ma allora come si sblocca davvero l’avvio di una trasformazione? Prima di tutto serve darle visibilità. Mi spiego: bisogna ottenere del committment dal vertice per dare inizio a dei progetti, piccoli o grandi che siano, poi però bisogna riuscire a rendere rilevante e noto quello che si sta facendo per rafforzarlo, per portare a bordo nuove persone e ottenere nuovi fondi e ulteriore spinta.

Avrete sentito parlare del ciclo di hype, che riguarda le tecnologie e le innovazioni che hanno un impatto sociale, organizzativo e sulla vita delle persone. Bene, nel mondo omnichannel ci si deve conquistare una reputazione e una visibilità che non sempre può essere ereditata da quella che abbiamo nella nostra tradizionale attività di business, e allora cavalcare l’hype è una capacità importante.

In questa fase il tempismo e le doti di comunicazione sono dunque i fattori chiave che permettono, entro certi limiti di logica, di avere successo a prescindere dai risultati su KPI che non siano quelli sulla visibilità.

Questo non significa che non serve alcuna competenza, perché per capire quando sta arrivando l’onda bisogna conoscere molto bene (e non per sentito dire) i trend emergenti ma centrare il momento giusto per un’iniziativa che possa essere poi maggiormente integrata in seguito è utile, specie verso l’interno della vostra organizzazione, per dare forza e visibilità alle vostre cause.

I tempi però sono maturi per andare ben oltre il momento di gloria.

Spesso e con motivazioni ben precise nelle presentazioni e nelle lezioni uso il termine ecosistema. Un ecosistema aziendale è fatto da persone che devono agire all’unisono e da strumenti tecnologici che devono consentire e abilitare la coerenza e la consistenza di tutti i punti di contatto che offriamo all’interno e all’esterno.

In questo ecosistema innovazione diventa anche non inventare per forza qualcosa di nuovo ma intuire le potenzialità di quello che esiste e collocarlo in un contesto più ampio. Possiamo parlare di adaptive innovator (vi consiglio su questo il libro Digital Disruption: Unleashing the Next Wave of Innovation) e di adjacent possible, ossia di innovazione incrementale che sfrutta gli strumenti che già esistono e li lega fra loro per migliorare il proprio processo prodotto o servizio.

La credibilità conquistata con le iniziative più visibili dovrebbe garantire quindi il mandato ad agire in modo ampio ma per fare la differenza nel medio periodo l’innovazione deve essere impostata non solo come sinonimo di rivoluzione, di superamento del passato in modo secco che fa notizia ma anche come evoluzione collaborativa che trasforma tutta l’organizzazione. D’altra parte, anche un’icona della ricerca di nuove frontiere come Steve Jobs aveva detto ben chiaro (su Wired) che “creativity is just connecting things”.

Come si trova allora un compromesso accettabile tra queste due forze, la visibilità veloce e la trasformazione diffusa? A mio avviso si passa per competenze e governance.

Le competenze, oltre che tecnologicamente bimodali, sono di comunicazione, per diffondere e convincere del valore del cambiamento le persone che fanno parte dell’azienda, e di strategia, per capire per ciascuna azione le implicazioni sul disegno complessivo.

La governance invece serve perché bisogna avere un piano e un metodo con cui portare a bordo l’innovazione in modo sistematico, senza creare colli di bottiglia ma nemmeno senza lasciare all’anarchia l’ecosistema aziendale.

Con questi due pilastri si possono costruire serenamente tutti i tipi di iniziativa, pur con il difficile tema dell’accettare un diverso modo di concepire la leadership, senza dimenticare che ogni tanto dobbiamo far ricordare che ci siamo con qualche iniziativa di rilievo. Gartner infatti prevede che ruoli di trasformazione come il Chief Digital Officer diventeranno inutili quando la digitalizzazione sarà matura, io invece preferisco dire invisibili, perché chi si occupa oggi di queste cose guida un processo che appare ormai quasi naturale ma che deve essere continuamente evoluto.

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Si occupa di Digital Strategy dal 2000 con, fin da subito, la convinzione che servano profili in grado di conciliare le logiche di business con una solida conoscenza della tecnologia in modo ibrido. Dal 2006 al 2014 è responsabile del Digital Marketing per un gruppo leader nel settore retail e successivamente, fino al termine del 2016, si occupa all’interno della stessa società dell’intero ecosistema della Customer Technology, facendo in modo di colmare la distanza tra Marketing, Change Management e gestendo l'Innovation Lab interno dell’azienda. Oggi ricopre un analogo ruolo di Digital Transformation a livello global per un importante brand del lusso italiano. Appassionato divulgatore con il blog http://internetmanagerblog.com, è docente in master e in corsi di alta formazione. Oltre ai viaggi digitali, ama conoscere nuovi posti anche nel mondo fisico.

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