Tutti scaduti i brevetti degli altri

Anche se da più parti viene ancora presentata come “innovativa” (e per molti aspetti lo è), la stampa 3D non è più una novità. Definita da più parti come “la terza rivoluzione industriale”, l’avvento di questa tecnologia (che è in realtà una famiglia di tecnologie simili ma diverse) dovrebbe rivoluzionare in pochi anni il modo di produrre beni di uso comune, spostando il paradigma della produzione industriale dal tipo uno-a-molti (produzione, da parte di multinazionali, di grandi serie di oggetti identici tra loro, destinati all’acquisto di massa, come ad esempio l’iPhone) al tipo pochi-a-pochi (produzioni limitate di oggetti destinati a soddisfare bisogni di nicchia ad opera di aziende di dimensioni medio-grandi) o addirittura al tipo molti-a-uno (produzione personalizzata, su richiesta, di pezzi unici ad opera di piccole manifatture in numero sufficientemente grande da soddisfare la richiesta).

Cos’è la stampa 3D?

È una serie di tecnologie esistenti sul mercato da almeno vent’anni e che permettono di costruire oggetti di qualsiasi tipo (parti meccaniche, oggetti d’uso comune ecc.) per aggiunta di materiale, utilizzando strumenti che permettono di sovrapporre un sottile strato per volta sopra il precedente. Fino a pochi anni fa si chiamava “prototipazione rapida”: era costosa, ma competitiva rispetto alla prototipazione classica realizzata per asportazione di materiale, soprattutto dal punto di vista della velocità, come l’aggettivo “rapida” lascia supporre. Per questo era relegata al ristretto campo della progettazione industriale, da dove cominciò ad uscire all’indomani della scadenza del brevetto US 5121329, riguardante la più economica tra le tecnologie di prototipazione rapida, nota come Fused Deposition Modeling (FDM).

Il professor Adrian Bowyer e il suo progetto RepRap, la stampante 3D open source che si auto-replica sono a mio avviso i capisaldi di questa rivoluzione. Nell’immaginario collettivo di oggi la stampa 3D si identifica con le sue macchine, che creano oggetti fondendo un filo di plastica, o con le sue discendenti dirette o indirette. Dobbiamo molto a quel progetto, e alla scadenza di un brevetto che libera la conoscenza rendendola utilizzabile da tutti.

Deve molto a quel progetto e a quella scadenza di brevetto anche Ultimaker, azienda olandese che, sviluppando il progetto RepRap, ha costruito il suo business sulla produzione di stampanti 3D divenute ben presto ricercate per qualità, accessibilità, razionalità costruttiva, facilità di montaggio e di gestione.

Eppure qualche giorno fa un comunicato dell’azienda ha lasciato perplessi molti dei suoi clienti e ammiratori. Nel comunicato si rende noto che l’azienda ha iniziato a brevettare i suoi progetti. Motivo? Per “competere pienamente nel mercato professionale”, per “evitare che altre aziende possano rivendicarli come propri”.

Ma non dobbiamo subito pensare male. Si tratta solo di “brevetti difensivi”, almeno nelle intenzioni di chi li fa promettendo di fare causa (solo) a eventuali concorrenti che facessero causa all’azienda per violazione di brevetto. D’altra parte Ultimaker ribadisce il suo “impegno al 100% nella propria etica open source”, continuando a supportare la comunità e “incoraggiando le innovazioni in questo campo”. Certo, blindare i propri progetti e incoraggiare la pubblicazione di quelli degli altri non ci sembra esattamente il modo più adatto di onorare l’etica open source aziendale, ma è chiaro: Ultimaker è libera di fare le sue scelte, come lo fu MakerBot nel 2012, e noi siamo liberi di giudicare le aziende, in fila all’ufficio brevetti, che sulla scadenza di un brevetto e sulla condivisione della conoscenza degli altri hanno fatto la propria fortuna.

Meno male che esistono esempi di chi, troppo impegnato a produrre per pensare di volere l’esclusiva della conoscenza, dimostra che un modello di business basato sulla condivisione della conoscenza e sul concetto di open source applicato anche all’hardware, possa dare le sue soddisfazioni.

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