Uno degli elementi di disturbo per l’Open Access e per la sua affermazione è l’abuso che si fa del termine. Troppe volte ho sentito utilizzare “open access” per indicare libri, riviste, banche dati che, pur essendo accessibili gratuitamente, in realtà non avevano i requisiti richiesti dalla definizione di Open Access generalmente riconosciuta.
Mettiamocelo bene in testa: “Open Access” non equivale a “gratuito”, così come spiegato nel libro Fare Open Access. La libera diffusione del sapere scientifico nell’era digitale. Lo stesso equivoco concettuale affligge il mondo del software libero e open source da ormai trent’anni e ora si sta replicando anche nell’ambito della comunicazione scientifica.
Purtroppo il successo della filosofia Open Access e anche l’efficacia semantica del termine fa sì che molti soggetti, ovviamente non del tutto in buona fede, cerchino di cavalcare l’onda e di confondersi tra le istituzioni, le aziende, gli autori che invece sono impegnati seriamente e autenticamente nella promozione di questo movimento.
Il movimento Open Access è contraddistinto anche da un logo molto efficace, formato da un lucchetto aperto che richiama una “a” minuscola. Anche l’utilizzo troppo disinvolto di questo simbolo (ad esempio su locandine di eventi o su siti web di iniziative che hanno ben poco a che fare con l’Open Access) è deprecabile.
Per orientarsi nella jungla delle numerosissime riviste scientifiche che si autoproclamano “open access”, è disponibile il DOAJ Directory of Open Access Journals: un elenco in cui sono registrate tutte le riviste che rispettano i canoni dell’Open Access.
Anche se il modo più sicuro è quello di verificare i regolamenti della varie riviste e nel caso anche i contratti di edizione che esse sottopongono agli autori e accertarsi che rispettino i due requisiti della Dichiarazione di Berlino.
Articolo rilasciato con licenza CC BY
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