Un’edicola digitale salverà l’editoria?

Cena in zona Navigli in una sera da ottobrata milanese. Lo so che a qualcuno suonerà stridente: come dire “carbonara lombarda”. Ma clima e colori autorizzano la trasposizione spaziale; e poi il Valcalepio “Colle Calvario”, un rosso prepotente e dal retrogusto infinito, rende più calda l’atmosfera intorno e anche quella psicologica.

Siamo in sette: quattro del mondo della comunicazione, due del mondo finanziario, una stilista. Si discute, tra l’altro, della discesa senza fine della carta stampata e di quanto sia diventato precaria la professione e l’esistenza di chi fa un mestiere collegato all’editoria tradizionale. Si citano i recentissimi dati del quattordicesimo Rapporto Censis-Ucsi sulla dieta mediatica degli italiani, le puntuali analisi di Pier Luca Santoro e il mio articolo, proprio su Tech Economy, relativo a quella che molti dei commensali concordano essere una delle poche vere innovazioni editoriali per contenuti, linguaggio e collocazione: Freeda Media.

La conversazione si sposta poi sulla necessità di retribuire i contenuti di qualità con modelli di business diversi dal passato, partendo da un dato di fatto: si trovano sempre meno persone disposte a comprare un quotidiano o un periodico, perché ormai si privilegia la pluralità delle fonti e da ciascuna si attinge un articolo, una foto, una news, una rubrica, una statistica, un post… quasi mai l’intero. E si attinge, per lo più, gratis. Diversi editori all’estero si sono già orientati alla vendita di pezzi del loro prodotto editoriale (singolo articolo, singola news, singola rubrica), convinti che l’epoca del tutto gratis è destinata a essere solo transitoria, ma anche consapevoli che non si può tornare a vendere l’intero senza dare alcuna alternativa, perché il mercato è cambiato e il lettore è sempre più difficile da fidelizzare: può accettare di pagare ma solo quello che legge. E quindi a un prezzo che è una frazione dell’intero. 

Un millimetro sopra il gratis

Personalmente sono convinto che una via da tentare per la crisi dell’editoria, sia quella di puntare sui micro pagamenti: ma intendo micro alla lettera, un centesimo per esempio.

Davvero non saremmo disposti a pagare un centesimo di euro per un articolo su un argomento di nostro interesse contribuendo così a garantire la sopravvivenza e, addirittura, l’indipendenza di una testata? I social rigurgitano di richieste di democrazia dal basso contro “i poteri forti”; bene, saremmo noi a premiare la stampa che riteniamo migliore, più indipendente, più rispondente alla nostra domanda d’informazione consentendole di restare sul mercato, di creare lavoro, di fare emergere le professionalità giornalistiche migliori.

Al tavolo dei degustatori di Valcalepio, che hanno conservato comunque – vi assicuro- un’apprezzabile lucidità, mi si fa osservare che un micro pagamento nella misura da me ipotizzata, richiederebbe un numero molto vasto di lettori per essere ragionevolmente remunerativa. Invece stiamo vivendo il ciclo della progressiva riduzione dei lettori sistematici: il numero degli analogici è in picchiata e quello dei lettori digitali non compensa la perdita. Vero, ma si tratta di statistiche che riguardano lettori a pagamento secondo formule tradizionali (edicola, abbonamenti) e a costi tradizionali; non dobbiamo ignorare che sempre di più c’informiamo secondo palinsesti gratuiti e auto costruiti. Ci sono cioè altri lettori, in forme meno rilevabili o meno rilevate. Il micro pagamento di un centesimo, che è oggettivamente solo un millimetro sopra la soglia della gratuità e quindi non comporta problemi di sostenibilità economica, psicologicamente (e anche socialmente) è invece un kilometro più in alto perché implica scelte selettive, paganti e motivanti.

Mauro, l’unico del gruppo “non proprio astemio, ma con scarsa familiarità alcolica” (sì, lui si esprime così), interviene: “Ho un’osservazione di sistema”. Qualunque cosa voglia dire, gli faccio osservare che lo stracotto di manzo senza abbinamento con l’ottimo rosso che il padrone di casa ci ha offerto è un attentato alla convivialità e aggiungo: “Completo la mia visione e poi intervieni, ok?” Acconsente.

L’utopia praticabile del like a pagamento 

L’ipotesi dei micro pagamenti, peraltro, non modifica il meccanismo tradizionale di pagare l’informazione prima di averla ricevuta: compro il singolo articolo anziché l’intero giornale, spendo di meno ma solo dopo saprò se mi avrà soddisfatto.

Se invece in qualsiasi quotidiano o magazine on line, o sito o blog, o anche social network, oltre al bottone “like”, come esplicitazione di consenso gratuito, avessimo accanto anche un pulsante di “like&pay”, cliccando il quale si versa un centesimo (all’autore, alla testata, al blog, al sito), avremmo aggiunto la collaterale possibilità di un pagamento mirato.

Un quotidiano oggi costa mediamente un euro e mezzo: bene, utilizzando lo stesso “capitale” in una settimana, potremmo premiare con 150 “like&pay” altrettanti articoli o immagini o video o news o post, diventando un vero azionariato diffuso, partecipe e responsabile della qualità dell’informazione: una fiducia non in bianco, ma rinnovata di volta in volta e che fornirebbe in tempo reale una serie d’indicazioni preziose ad autori ed editori.

Ingoiato il boccone di stracotto, Mauro mi annuncia che non ha solo un’osservazione ma anche una notizia: “Spostare denaro ha comunque un costo, che siano mille euro o un centesimo. E nel secondo caso, potrebbe rendere antieconomica e assurda l’operazione!

Me l’aspettavo; lo so bene che è un lato debole della mia ipotesi. “A meno che chi versa e chi riceve non siano parti dello stesso ecosistema, nel quale sia possibile spostare denaro senza costi” rispondo. Su quale potrebbe essere questo ecosistema ho idee ancora da mettere a fuoco, ma Mauro mi toglie dall’imbarazzo perché aggiunge: “La notizia è che Tinaba sta pensando a una soluzione per l’editoria proprio nella tua ottica!” 

Tinaba media: un modello di business per l’editoria

Tinaba: chi era costui, costei? Google mi fa sapere che è femmina: un’App “innovativa” per trasferire, condividere, gestire, spendere denaro e realizzare progetti di crowdfunding. Mi viene da pensare a una sorta di digital wallet, un’alternativa a Hype di Banca Sella per l’e-payment. Ma appena mi collego al sito, tre affermazioni che ripeto testualmente mi accedono in testa altrettante lampadine circa il collegamento tra Tinaba e la mia ipotesi:

  • nasce per inviare, aggregare e condividere il denaro a costo zero.
  • è l’unica App che consente transazioni del tutto gratuite
  • anche un solo centesimo può essere trasferito senza alcun tipo di commissione: né per chi lo invia, né per chi lo riceve

L’unica cosa che non rintraccio nel sito è un collegamento con il settore editoriale.

Ma Google continua a sfornare risultati: Tinaba, Fondo Sator, Matteo Arpe. Eccolo l’aggancio: Arpe vuol dire, tra l’altro, gruppo editoriale News 3.0 da cui il quotidiano on line Lettera43 e i periodici, cartacei e digitali, Rivista Studio e Pagina99. Cosa ha in testa dunque il cinquantenne e combattivo banchiere, appassionato di numeri primi: utilizzare la piattaforma Tinaba per realizzare una sorta di nuovo Spotify, che renda possibile comprare singoli pezzi delle sue testate pagando solo ciò che si legge?

Proprio così. Ma non è una mia deduzione e neanche una soffiata di Mauro che lavora nel settore.

È invece una scandita dichiarazione proprio di Matteo Arpe a quella giornalista, sempre sul pezzo e spesso in anticipo su quanto sta per accadere nel mondo della comunicazione, che è la condirettrice di Prima Comunicazione: Alessandra Ravetta. L’intervista dal titolo “Editori, vi faccio guadagnare” è sul numero appena uscito della Rivista e annuncia il lancio di un’App sorella: Tinaba Media che “darà accesso a un’edicola virtuale con tutte le testate sfogliabili di tutti gli editori aderenti” (quindi non solo il gruppo editoriale News 3.0!) “e il lettore potrà selezionare argomenti, autori e firme e pagare solo quello che effettivamente legge”.

Sul sito non c’è ancora nulla, perché il lancio di Tinaba Media è previsto per novembre e sarà sostenuto da “una massiccia campagna di comunicazione che prevede anche la televisione”. Vedremo quali e quanti editori aderiranno (primo fattore critico di successo), la risposta del pubblico e in che tempi (altro fattore critico di successo), i costi dei singoli pezzi e sapremo se la soluzione sarà più vicina, tra quelle ipotizzate, a “pago prima” oppure “ti premio dopo” con un like a pagamento; o un mix di entrambe.

Vedremo. Ma intanto si prospetta un diverso modello di business nel mondo disorientato dell’editoria che, finalmente, prova a guardare a Internet e al digitale come una soluzione e non come un problema. 

Tinaba fa community 

Sarà anche molto social Tinaba, che incentiva gli scambi tra i membri della community; ma per lo scambio di denaro, ha bisogno di una banca alle spalle. O no?

Appena vedo il logo, mi ricordo che ne avevo parlato in aula alla Sapienza in occasione dell’analisi comparata dell’identità visiva di alcuni Brand del mondo finanziario e dintorni: il pittogramma ricorda il famoso segno graffiante di Capogrossi ma in una chiave, rotonda, morbida, amichevole.

Il logo mi piace. Meno il payoff che poi corrisponde all’acronimo: This Is Not A BAnk. Mi piace meno perché un concetto è più chiaro se espresso in positivo e non ricorrendo a una negazione e poi perché Tinaba è collegata, e non potrebbe essere diversamente come già detto, a una banca: Banca Profilo.

L’altro payoff utilizzato: “Me, We, All” mi sembra deboluccio. Credo che il team della comunicazione farebbe bene a continuare a fare brainstorming sul tema, ripartendo da una formulazione che metta insieme i due concetti e ragionandoci sopra.

Dal Valcalepio alla charlotte

Con le buone prospettive annunciate dall’arrivo di Tinaba Media termina ogni conversazione professionale, perché giunge in tavola una charlotte meneghina servita calda, “come da ricetta ottocentesca” assicura il padrone di casa. E noi sette sui Navigli dedichiamo adeguata attenzione allo storico dessert. Niente commenti, solo mugolii di piacere e gesti estasiati, mentre l’ottobrata milanese si veste di un più uniforme colore notturno e l’acqua tende al verde scuro con accenni di blu: “viridian”, suggerisce la stilista.

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