Editori innovatori per millennials (ma tenendo d’occhio anche le sorelline)

Di fronte alla crisi dell’editoria e della raccolta pubblicitaria, avevo invitato gli studenti del corso di comunicazione d’impresa alla Sapienza, nonché alcuni manager del settore della distribuzione di prodotti culturali, a segnalarmi iniziative editoriali che ritenessero quanto meno significative di possibili nuovi sbocchi se non proprio innovative.
Della decina di segnalazioni che ho ricevuto, nove erano effetti speciali, applicati a scelte redazionali tradizionali, più che realtà nuove e originali. Tra l’altro predominava il lavoro di cura di contenuti, più o meno intelligentemente selezionati dal web, rispetto alla produzione di contenuti originali autentici.

Read us in your social feed!

Tutte tranne una: Freeda Media, segnalatemi da una studentessa con esperienze di visual design alle spalle.
Un modello editoriale interessante che mi sembra rifuggire dalla logica imperante: i Social devono essere usati essenzialmente come cassa di risonanza per convogliare traffico sul proprio sito. Su quello di Freeda, trovo l’invito “Read us in your social feed!”. Vado sulla loro pagina Facebook e mando un messaggio alla redazione preannunciando un‘email: ho da chiedergli alcune cose. Si dimostrano subito disponibili, con parole e con emoji.

All’email, con la quale anticipavo gli argomenti di una possibile intervista, mi risponde direttamente e tempestivamente Andrea Scotti Calderini, un passato in Publitalia e cofounder di Freeda. Ci accordiamo per un’intervista telefonica, che avverrà nella giornata prevista nonostante il boicottaggio del mio cane che non intendeva restituirmi le cuffiette e nonostante laboriosi passaggi nella metropolitana milanese per Andrea.

Meglio a casa loro

Gli spiego cosa ha suscitato il mio interesse; poi cominciamo. Il sito di Freeda si riduce alla sola home page nella quale t’invitano ad andare su Facebook e Instagram. E basta. Come a dire: ma davvero ha ancora senso avere un sito?
Andrea al telefono mi risponde che ho capito bene, è proprio così: “il nostro pubblico, le donne tra 18 e 35 anni sono lì, perché mai dovremmo farle spostare? Facebook ci mette a disposizione informazioni, dati e strumenti per intercettarle e interpretarne gusti e comportamenti in un’ambiente che conoscono bene e con la disponibilità di chi si sente a casa sua!”
Non fa una piega. Ma non gli fa paura ad Andrea e al suo socio, Gianluigi Casole, di essere “ospiti totali” del sig. Zuckerberg, visto che anche l’altra presenza significativa di Freeda è quella su Instagram che è del medesimo proprietario? No, non gli fa paura anche perché sul Web oggi è impossibile non essere, in tutto o in larga parte, ospite di qualcuno.

La successiva domanda è scontata: perché, tra i Millennials, solo le donne? “Perché sono ancora poco raccontate, pur essendo il pubblico che negli ultimi anni si è evoluto di più. Noi vogliamo diventare la loro voce più significativa, libera e indipendente”. E per far questo, la linea editoriale è affidata, ça va sans dire, a una di loro: Daria Bernardoni. Linea articolata su tre punti forti: il valore delle donne nella storia e nella contemporaneità (casi esemplari e motivanti), il personal style (non modelli standardizzati di riferimento, ma una rappresentazione caleidoscopica dei diversi universi femminili), l’importanza della solidarietà collaborativa per il successo.

E come stanno andando le cose? Andrea e tutta la squadra sono soddisfatti: in cinque mesi circa, 570mila utenti su FB e 80mila su Instagram. Ma soprattutto un “engagement rate” (livello di coinvolgimento/reazione) dell’1,20% circa, “molto, molto superiore alla media di settore”.
Ma quali sono i fattori critici del successo? Essenzialmente due, mi risponde: “contenuti originali e professionali, prodotti autonomamente, e una vera redazione di una trentina di persone. Della quale l’80% sono donne e il 20% uomini”. Una redazione che affronta temi anche delicati con coraggio e ironia, aggiungo io.

Il modello di business

Urca! Una start up che parte con trenta persone, qualunque siano le tipologie contrattuali prescelte deve mettere nel bilancio annuale, tra oneri diretti e indiretti, un milione di euro solo di spese per il personale. Il calcolo è mio e approssimativo, ma sicuramente realistico.
E il capitale per partire? “Crediamo fortemente nella soluzione editoriale che proponiamo. Ci credo io, ci crede il mio socio e, per fortuna, ci hanno creduto anche dei soci finanziatori. Ecco dove abbiamo trovato i soldi”. Del resto per produrre (dall’ideazione alla pubblicazione passando per la realizzazione) più di 30 contenuti originali a settimana su Facebook e più del doppio su Instagram, c’è bisogno di una squadra ricca di professionalità complementari.
Ho fatto un giro tra quanto pubblicato finora: il maggior successo attualmente è detenuto dal video “Viva la vagina!”, pubblicato a febbraio in occasione della giornata mondiale contro le mutilazioni femminili. Ha fatto registrare 2 milioni di visualizzazioni e 100mila interazioni: una viralità che ha contribuito molto a far conoscere Freeda.

E quale modello di business? “Allo stato: branded entertainement, product placement, content marketing, comarketing, privilegiando i video prodotti in collaborazione con gli inserzionisti. Da diffondere sui Social; ma, in prospettiva, potremmo anche andare oltre il perimetro dei Social”. Come pure il modello si potrebbe allargare – mi spiega Andrea- alla collaborazione con altri editori, analogici e digitali e… perché no? anche alle Telco, che sembrano intenzionate a scendere in campo come produttrici di contenuti (vedi ultime mosse di Flavio Cattaneo di Tim).

Quali sono i vostri competitor? Mi dice che in Italia attualmente non ne vede: per le Millennials e su quelle due piattaforme attualmente non c’è nessuna proposta paragonabile alla loro, che produce in proprio contenuti originali seguendo format, logiche e linguaggi social: “Vedo intorno più possibili partner che non competitor” conclude, ecumenicamente.

Altre piattaforme Social sulle quali porterete il vostro format? Probabilmente Youtube; ma guardano con grande interesse anche a Snapchat. In particolare alla sezione Discover, ancora trascurata dagli editori italiani, che non è più solo un posto per leggere nuove storie, ma si sta affermando anche come eccellente piattaforma dove i brand possono confrontarsi in modo creativo e liberare il loro potenziale pubblicitario. “Snapchat è fondamentale per raggiungere un’altra e contigua fascia di pubblico femminile: le 14-18enni” aggiunge.

Insomma a casa delle Millennials, ma tenendo d’occhio anche le sorelline? “Proprio così” mi conferma.

Guardate al mercato estero? “Certo che sì, ma al momento siamo concentrati sull’Italia. Poi in prospettiva, potrebbe esserci l’Europa, il Sud Europa probabilmente. Le Millennials nel mondo hanno molti tratti comuni, quindi non è temerario pensare al salto oltre i confini”. Ad una mia ulteriore richiesta precisa, risponde che no, non pensano agli Stati Uniti, ai quali però guardano come modello di riferimento; agli USA si sono ispirati e continuano a ispirarsi.

Piccolo test estemporaneo

Sì, è una mia mania: appena becco un pubblico coerente con quello che sto indagando in quel momento, cerco delle conferme.
Ero a Salerno, nei giorni scorsi, per coordinare due eventi del festival delle Generazioni e avendo tra il pubblico molti studenti di una Summer School liceale, ho fatto un piccolo estemporaneo test. Ecco i risultati.

Chiaro che non è un sondaggio e, tantomeno, scientifico; e su un campione minuscolo. Ma un suo senso ce l’ha e confermerebbe che Freeda può sfondare anche nella “generazione Z”. Auguri Andrea & C, non siete la rivoluzione editoriale ma avete una visione e una strategia; e una freschezza innovativa tra i vostri format e linguaggi si respira.

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