La sfida 2018 di Linux basata sulla percezione del brand?

Nella lista di Forbes dei 100 brand di maggior valore per il 2017, popolata dai più noti nomi dell’hi-tech ma non solo, compaiono ben 28 corporate member della Linux Foundation (Google, Microsoft, Facebook, Amazon, Toyota, Samsung, Intel, eBay, Netflix, Adobe, Huawei, ecc.).

Linux del resto è alla base del successo dei più noti servizi online, dei maggiori social network, dei device Android (che quest’anno ha superato Windows nella classifica dei principali sistemi operativi utilizzati per accedere a internet), delle infrastrutture cloud e dei pionieri della new-mobility. Lo troviamo perfino nello spazio, sulla stazione orbitante internazionale e sui rover che esplorano Marte. Linux gira inoltre su tutti i 500 più potenti super-computer del mondo.

Linux è praticamente ovunque, ma il suo brand quanto è conosciuto ed apprezzato dalla gente comune?

In termini di mercato la percezione è più importante della sostanza

Il suo valore tra gli addetti ai lavori ed i grandi player è indiscusso: perfino il suo storico, acerrimo nemico Microsoft ora svetta nella lista dei corporate member della Linux Foundation, addirittura come platinum member, quindi col più altro contributo annuale previsto: ben 500.000$/anno.

Non che questi dati non vengano citati di continuo in seminari, conferenze, eventi divulgativi in generale, ma far breccia nella grande massa è tutta un’altra storia: manca un’esperienza utente tangibile, manca il brand sugli scaffali dei negozi, manca un prodotto “flagship” (Android è un marchio che per il grande pubblico è riconducibile a Google, difficilmente viene associato a Linux).

Pensiamo alla Apple, azienda in cima alla sopracitata classifica di Forbes: quanto concorre alla percezione del brand avere in catalogo un device dal costo proibitivo come l’iPhone X? In pochi se lo possono permettere, ma è proprio il desiderio che scaturisce in chi non se lo può permettere a generare la leva maggiore.

Oppure, spostandoci in ambito automobilistico, guardiamo alla Lexus (#64 della classifica), brand di lusso della Toyota (#8), che nel 2010 portò al debutto la sua prima supercar in assoluto, l’iconica LFA costata ben 10 anni di sviluppo e proposta a un prezzo assolutamente fuori mercato rispetto alla diretta concorrenza (500 esemplari, tutti venduti ed oggi oggetto di culto per danarosi appassionati). L’aspetto davvero interessante fu che la casa dichiarò di non aver previsto alcun margine di guadagno dalle vendite: l’operazione era totalmente mirata ad accrescere la percezione del brand (un aspetto che accomuna le case automobilistiche anche nella partecipazione alle più note competizioni sportive).

L’unico vero tentativo mai compiuto per quanto riguarda Linux fu Ubuntu Edge nel 2013, un ambizioso concept di smartphone di fascia alta, come flagship della visione di convergenza ideata da Canonical. Il tentativo si concretizzò nella più grande campagna di crowdfunding di sempre, che però fallì e non portò alcun device di punta sul mercato, determinando inevitabilmente la fine delle ambizioni per Ubuntu in ambito consumer (ufficializzata proprio quest’anno).

Per il resto la situazione è desolante, basta un ‘caso Monaco’ qualsiasi a spazzare via anche i più piccoli traguardi raggiunti con grande fatica da organizzazioni, associazioni ed aziende.

Monaco e la beffa del progetto LiMux, The IT evolution

Se l’opera di costruzione di un brand è un’impresa titanica, per affossarlo agli occhi del grande pubblico in maniera quasi indelebile è un attimo: basta un titolo come quello apparso tra le colonne di TechRepublic: End of an open source era: Linux pioneer Munich confirms switch to Windows 10. Un qualsiasi lettore a questo punto identifica Linux come un prodotto obsoleto da soppiantare con un “più moderno ed attuale” Windows 10 e, a dire il vero, nel caso specifico di Monaco, l’impressione non è poi così tanto lontana dalla realtà.

La narrazione del risparmio fine a sé stesso (se ha mai funzionato) non funziona più

Il progetto LiMux, di migrazione al Software Libero da parte del Comune di Monaco di Baviera, non è stato privo di importanti traguardi (un progetto nato e gestito all’interno della PA, che ha investito in competenze locali e che ha condotto con successo una complessa opera di migrazione e standardizzazione), ma ha totalmente disatteso le aspettative evocate dal suo altisonante titolo/motto/manifesto The IT evolution, appiattendosi nel perseguire gli obiettivi della stabilità e del risparmio, trascurando quelli doverosi del re-investimento e dell’innovazione.

A cosa è servito risparmiare 10 milioni di euro in 6 anni (stima dalla partenza nel 2006 al pieno regime del 2012) se, ad oggi, l’era della trasformazione digitale, il risultato è un sistema iper-conservativo al limite dell’obsolescenza?

È evidente che a quel punto, politicamente, fa presa nell’opinione pubblica la proposta di un investimento dai 50 ai 100 milioni in aggiornamento e (presunta) innovazione: alla fine conterà il risultato percepito. L’aspettativa di una cittadinanza nel 2017/quasi 2018 è quella di servizi digitali efficienti e possibilmente a portata di smartphone e, se sarà soddisfatta, il costo per la collettività sarà a quel punto tenuto poco in considerazione. Del resto, in questo clima di forte disillusione, dalla classe politica ormai non ci si aspetta più una grande efficienza in termini economici, mentre nell’immaginario collettivo la priorità verso un’innovazione digitale dei servizi è alta, costi quel che costi.

E allora la comunità Free Software non può più trincerarsi dietro la politica del risparmio fine a sé stesso, ma deve controbattere alla pari su un piano maggiormente comprensibile e redditizio in termini di percezione: “Sì, raccogliamo la sfida di investire 50-100 milioni di euro e vi dimostriamo cosa siamo in grado di fornirvi in più per quella cifra”, considerando che nel conto presentato da Microsoft il solo costo delle licenze porta via dal budget ben 30 milioni di euro.

Da alternativa/ripiego a riferimento

È vero che Linux risulta maggiormente monetizzabile in ambito enterprise (vedi Red Hat e SUSE/Novell), ma casi di successo come Ubuntu, che ora si concentra e macina ricavi nell’enterprise e nel B2B solo grazie al brand costruito con la sua declinazione desktop, insegnano quanto sia importante lavorare sulla percezione di massa del marchio, anche senza margini di ricavo o addirittura in perdita (da bilanciare coi ricavi negli altri settori).

Dal punto di vista della comunità è invece fondamentale abbandonare le narrazioni dell’alternativa e del risparmio, che contribuiscono a costruire un’immagine svilente del panorama Open Source, come se fosse rivolto solo a chi non ha abbastanza soldi per permettersi le soluzioni proprietarie.

I riferimenti devono diventare quei casi che mostrano lo stato dell’arte di queste tecnologie, e più questi esempi saranno vicini e comprensibili per la grande massa (che nel quotidiano di certo non lavora con super-computer o stazioni spaziali orbitanti), più la percezione si avvicinerà all’effettivo valore di questo brand (quello riconosciuto dai principali player hi-tech al mondo), e allora anche il mercato si orienterà di conseguenza.

Facebook Comments

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here