I social media: luogo di informazione o di “cazzeggio”?

Penso di avere un problema con i social media. Quale? Questo: nonostante l’opinione maggioritaria sembri andare esattamente nella direzione opposta, io continuo a pensare che i social media siano uno strumento di informazione e divulgazione e non un semplice luogo di “cazzeggio” e di nutrimento del proprio narcisismo. Forse starete già dicendo che sto delirando, che non ci sto più con la testa; è probabile. Ma fatemi prima esprimere qualche riflessione a riguardo.

Chi segue i miei profili sa che sono un utente attivo (molto attivo) dei social media, cioè un utente che crea e diffonde spesso post e che non si limita a osservare e condividere i post degli altri. Attraverso i social riesco costantemente a diffondere contenuti interessanti di vario tipo (realizzati sia da me che da altri divulgatori) come articoli, immagini, slides, video, infografiche, documenti, sentenze, che non avrebbero sufficiente visibilità se fossero semplicemente pubblicati su una pagina web di qualche sito o blog.

Da utente attivo persisto nella convinzione che i social siano uno strumento potentissimo per veicolare messaggi, lanciare spunti di approfondimento, diffondere link e contenuti di vario tipo, smuovere coscienze, stimolare il dibattito. Grazie ai social media e alle community che lì si sono create sono riuscito a creare e coltivare relazioni importanti da un punto di vista lavorativo (penso principalmente ai gruppi tematici su Facebook e LinkedIn) ma anche a far nascere e crescere relazioni di amicizia o di coppia importanti; grazie ai social sono riuscito a inserirmi in dibattiti di natura scientifica, politica, sociale, o intellettuale in senso lato, arricchendo la mia conoscenza con punti di vista che non avevo mai considerato (penso principalmente a Twitter). I social sono quindi per me una cosa estremamente seria e rappresentano ormai una fetta importante della mia attività di informazione e divulgazione.

Io li utilizzo con quello spirito e ogni tanto mi domando se questa mia velleità sia una forma di nevrosi e di scollamento dalla realtà; da una realtà che giorno per giorno cerca di smentirmi, facendomi notare che la stragrande maggioranza degli utenti invece utilizza i social media proprio per “cazzeggiare” e distrarsi.

Non voglio arrendermi a questa concezione maggioritaria dei social, anche perché su Facebook, Twitter e LinkedIn (un po’ meno su Instagram) vedo una costante crescita dei contatti e delle interazioni; quindi forse il mio lavoro di divulgazione non cade proprio nel vuoto. Tuttavia non posso far finta di non notare, guardandomi attorno, che sono davvero sempre meno gli utenti che utilizzano i social con quello spirito. Soprattutto ora che buona parte della comunicazione avviene per immagini e, nel caso di Instagram, anche senza possibilità di accompagnare un link in cui andare ad approfondire. Da recenti studi sembra che i secondi di attenzione che in media dedichiamo ai post si stiano sempre più riducendo arrivando ormai a meno di 10; ed è dunque utopia sperare che gli utenti vadano oltre al titolo, al sottotitolo e forse a qualche riga qua e là.

Se poi pensiamo che la funzione che registra una maggior crescita sono le cosiddette “storie”, abbiamo conferma che la direzione va verso una comunicazione leggera, senza pretese, senza possibilità di approfondimento. Le storie sono infatti contenuti che si scorrono “di passaggio” e destinati a non rimanere memorizzati, ad “autodistruggersi” nell’arco delle 24 ore. Questo, per uno come me che a volte spende ore per realizzare un post completo e ben articolato, risulta davvero molto difficile da comprendere. Perché mai dovrei fare un post sapendo che poi si autodistruggerà? C’è solo una risposta: perché fin dall’inizio so che quel post è di poco valore, è legato solo a un frangente “minore” della mia vita e dunque ha una sua ragion d’essere solo per poche ore.

Altro problema non da poco è la tendenza a utilizzare i social attraverso l’apposita applicazione senza mai uscirne: tutto il contenuto dev’essere direttamente visibile/fruibile all’interno dell’applicazione; quindi è inutile inserire un link esterno con il classico “read more”, perché tanto nessuno ci cliccherà davvero. Ciò è confermato anche da mie misurazioni empiriche: il traffico del mio blog si è ridotto, mentre è aumentato quello sui miei profili social, dove però non faccio altro che replicare il contenuto dei post del blog. Fino a qualche mese fa, sui social mettevo solo un teaser del post accompagnandolo con un link al blog in cui poter leggere tutto il contenuto (sperando così di promuovere il blog e spostare lì un po’ di traffico); ma poi mi sono arreso alla tendenza generale e sono passato a copiaincollare il contenuto integrale dei post, ormai conscio che quello è l’unico modo per sperare che qualcuno legga il testo. Triste da dire, ma su questo ha vinto Zuckerberg, che è riuscito a mettere il web in secondo piano rispetto alle piattaforme social.

Altra forma in cui si manifesta questa superficialità e riluttanza all’approfondimento è la prassi sempre più diffusa di condividere e commentare i post senza averli né letti né compresi. È un fenomeno sempre esistito, ma oggi portato agli estremi e forse sfuggito di mano, con grande soddisfazione di coloro che si divertono o, ancora peggio, si arricchiscono proprio grazie alla diffusione di fake news e di post in stile “click bait”.

Ovviamente andrebbero fatte le debite distinzioni a seconda delle varie piattaforme (ad esempio il problema dei link esterni per approfondire e dei click bait non si pone nemmeno su Instagram dato che la piattaforma non consente di inserire link esterni); e forse avrò modo di fare considerazioni più specifiche e mirate in altri successivi articoli. Ad ogni modo, credo che le riflessioni che ho esposto siano trasversali a tutte le principali piattaforme e segnalino la china che sta prendendo la comunicazione via social media.

 

Articolo sotto licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 4.0

Facebook Comments

Previous articleEni ed ENEA insieme per la sostenibilità ambientale
Next articleI trend 2019 destinati a rivoluzionare il nuovo anno
Simone Aliprandi ha un dottorato in Società dell’informazione ed è un avvocato che si occupa di consulenza, ricerca e formazione nel campo del diritto della proprietà intellettuale, con particolare enfasi sul mondo delle tecnologie open e delle licenze Creative Commons. Nel 2005 ha fondato il Progetto Copyleft-Italia.it (primo progetto italiano di divulgazione sul tema delle licenze open) e dal 2009 è membro del network di professionisti Array. Svolge costantemente attività di docenza presso enti pubblici e privati, ha all’attivo varie pubblicazioni (tutte rilasciate con licenze libere) e scrive costantemente per alcune testate web oltre che sul suo blog. Tra le sue opere più conosciute "Capire il copyright. Percorso guidato nel diritto d'autore", "Creative Commons: manuale operativo" e "Il fenomeno open data". Sito web: www.aliprandi.org

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here