Contrordine: il lavoro è cambiato e cambierà

La tecnologia non distrugge posti di lavoro. Marco Bentivogli, segretario generale della Fim Cisl, lo ha rimarcato in diverse occasioni e lo ha messo nero su bianco sulle pagine del suo ultimo libro Contrordine compagni. Manuale di resistenza alla tecnofobia, dove sono descritte le diverse tecnologie che impattano oggi sul lavoro. Lavoro che deve essere ripensato e ridisegnato alla stessa stregua del ruolo del lavoratore. Una sfida, una partita ancora tutta da giocare per il nostro Paese che deve abbattere la tecnofobia per abbracciare l’innovazione, il lavoro agile e avere con esso uno sviluppo urbano più sostenibile e un migliore stile di vita per il lavoratore.

Ci racconta la storia del titolo del libro, che richiama la satira di Guareschi?

“Come scrivo anche nel libro, la parola «compagni», usata e abusata dalla sinistra, ha una radice cristiana. Deriva dal latino cum panis, e accomuna coloro che mangiano lo stesso pane: il gesto di comunione più antico e bello tra gli esseri umani, capace di trasmettere un alto senso di condivisione. Per puntare ancora su questa fraternità, serve un segno di discontinuità da schematismi e dogmi, spesso nient’altro che scorciatoie per far finta di non capire cosa accade, per deporre le armi e non accettare le sfide che si palesano davanti a noi.

Il nostro è un Paese di tecnofobi: nel libro parlo dell’avversione che ci fu contro la Tv a colori, che da noi arrivò con 10 anni di ritardo rispetto agli altri Paesi. Oggi industria 4.0 rappresenta qualcosa di più che la semplice automazione della fabbrica: rappresenta un cambio di paradigma. Tecnologie ICT e biotecnologie stanno modificando in maniera radicale non solo il lavoro, ma l’idea stessa di società e forse anche quella dell’umanità come l’abbiamo conosciuta fino a oggi: siamo all’inizio di quello che io chiamo il secondo balzo in avanti dell’umanità. Non possiamo permetterci di stare a guardare: bisogna avere una capacità progettuale in grado di mettere l’uomo al centro di questa rivoluzione.

Ecco da dove viene il mio «contrordine», sperando che questa volta arrivi dal basso, da una domanda più esigente di partecipazione che elevi la qualità della rappresentanza e di tutte le élite, di qualsiasi natura, in un’epoca in cui siano sempre meno utili ordini e contrordini”.

La tecnologia non è né buona né cattiva, spiega nel suo libro: ma con quali valori dobbiamo “riempirla” per trasformarla in uno strumento di crescita e benessere?

“La tecnologia in sé è neutra ed è l’uso che l’uomo decide di farne che ne determina la bontà o meno. Per questo le società moderne si sono dotate di leggi e regole che disciplinano l’utilizzo di determinate tecnologie. Penso banalmente al codice della strada, che ha regolato e disciplinato l’uso di questa tecnologia: l’automobile. Serviranno quindi delle regole nuove anche per quello che riguarda le nuove tecnologie. I casi di Cambridge Analytica ci hanno mostrato il lato oscuro dei social network; da maggio dello scorso anno l’UE si è dotata del nuovo Regolamento Europeo 2016/679 in materia di protezione dei dati personali, introducendo il principio di privacy by design, che si pone l’obiettivo di individuare nuove forme di tutela per le persone basate sulla leva tecnologica, in aggiunta a quelle che tradizionalmente si sono realizzate intervenendo sulla leva giuridica. È chiaro che ciò non basta: la rivoluzione in atto deve prevedere una riforma del sistema scolastico che dia consapevolezza e conoscenza alla persone: solo così tutti ne potranno cogliere le opportunità. I recenti dati Ocse ci dicono che le nuove tecnologie cancelleranno 75 milioni di posti di lavoro, ma ne creeranno 133 milioni, per i quali tuttavia oggi mancano le professionalità: è su questo che dobbiamo lavorare”.

La costruzione di una società sostenibile tramite la tecnologia passa attraverso la nostra capacità di riempirla di valori. Come cambia il ruolo dei sistemi di rappresentanza e in particolare del sindacato, nel momento in cui stiamo ridefinendo i nostri modelli di riferimento?

“La sostenibilità sociale deve essere alla base di ogni idea di futuro. Umanizzare l’economia, il lavoro, la società significa mettere in gioco i valori, rigenerare i luoghi d’incontro, per trasformare gli “odiatori” in esseri umani inclini alla fraternità. La tecnologia può rappresentare un valido alleato se inserita in un sistema sociale libero da insicurezze e paure. La cultura è l’arma più forte, insieme a un nuovo protagonismo delle persone e alla valorizzazione del contributo positivo di ognuno per una crescita della sostenibilità complessiva. In questa chiave il lavoro ha un ruolo centrale, come crocevia tra la realizzazione di ognuno, la sostenibilità (industriale, finanziaria, sociale e ambientale) delle imprese e la rigenerazione, attraverso la cura dei beni comuni, delle relazioni di reciprocità.

La verità rispetto ai cambiamenti in atto è che il nuovo lavoro si configura sempre più come un “progetto” di valore e portata diversi. Emergono forme di lavoro che non possiamo pensare di ingabbiare nel vecchio dualismo “lavoro dipendente-lavoro autonomo”, né dentro gli spazi rigidi della fabbrica.

Questo implica un ripensamento anche del modo di fare sindacato, per esempio dello spazio organizzativo, che diventa anche digitale. E allora come intercettare il nuovo lavoro, sempre più frammentato? Le assemblee sono uno dei momenti più belli per chi fa sindacato con il cuore e la testa, ma servirà affiancarle ad altro; dovremo pensare a delle “app” ad hoc e lavorare su forme organizzative e comunicative del tutto nuove. Il sindacato non può permettersi di ignorare questi sviluppi, opponendosi a priori o non tenendone conto nell’immaginare l’evoluzione della propria rappresentanza. Anzi – e lo vedremo diffusamente – i Big Data possono essere un formidabile strumento del nuovo. Questi presuppongono nuove capacità di collegare fra loro le informazioni e fornire un approccio visuale ai dati, consentendo possibilità di interpretazione fino a oggi inimmaginabili. La tecnologia può darci una mano, essere un valido alleato: la Blockchain, come ho scritto con Massimo Chiriatti, può rappresentare il nuovo bene pubblico digitale, una delle tante possibili direttrici di sviluppo della nuova rappresentanza”.

In una società sempre più basata sui dati, come sta cambiando il senso del lavoro?

“Grazie alla sviluppata capacità ed economicità di calcolo e a una sempre più pervasiva raccolta dei dati attraverso l’ecosistema IoT, che comincia a essere presente negli oggetti e nelle fabbriche, nelle città e in tutti i nostri device, le produzioni, anche quelle industriali, saranno sempre più sartoriali. Questo è possibile solo grazie alla tecnologia e ai dati che viaggeranno lungo le nuove infrastrutture 5G; ciò implicherà una revisione dei nostri modelli organizzativi, dove anche la stretta relazione che esisteva tra spazio di lavoro e tempo va via via sfumando.

Lo smart working è già una realtà in molte aziende, anche metalmeccaniche. Molti lavori ripetitivi e poco umani saranno sostituiti dall’AI che, grazie all’elaborazione dei dati, potrà gestire in maniera più efficace una serie di lavori routinari che poco hanno di umano, ma si apriranno spazi inediti, come ho già detto, per un lavoro a più alto contenuto umano e cognitivo su cui dovremmo prepararci per tempo.

Il lavoro in questo senso manterrà la sua natura di bene capitale, sarà parte della nostra identità: identità non solo personale, ma anche di gruppo. Questo riflesso comunitario non va dimenticato perché serve a metterci in guardia contro ogni riduzionismo, contro ogni economicismo che identifica il lavoro con una merce da scambiare sul mercato contro un salario. È una visione che purtroppo negli ultimi 30 anni ha affermato la sua egemonia. E che nemmeno la crisi è riuscita a scalfire, se non in superficie. Il lavoro, invece, è qualcosa di più: contiene una dimensione spirituale, etica e sociale che non può ridursi al solo reddito, nemmeno se è di cittadinanza”.

Si parla sempre di più di “prosumer”: la crescente disponibilità di dati da parte delle aziende. Come cambia la relazione con chi ci lavora? L’asimmetria tra chi dispone delle informazioni e chi le produce non rischia di generare nuove disuguaglianze?

“Il rapporto tra produttore e consumatore oggi è molto sfumato; i social network rappresentano uno dei casi scuola di questa commistione, che tra l’altro ha messo in crisi il mondo della carta stampata e dell’informazione in genere. Proprio la Silicon Valley, da dove gran parte di questa rivoluzione è partita, ci mette in guardia circa i pericoli cui la detenzione, l’analisi e il controllo dei dati in mano di pochi ci espone. Pericoli non solo per il lavoro ma per la stessa democrazia.

The age of Surveillance Capitalism” di Shoshana Zuboff, professoressa di Havard, è solo l’ultimo dei libri in ordine di tempo sul tema. Sono ben note a tutti le innumerevoli cose che si possono fare con l’utilizzo dei dati. La maggiore potenza di calcolo, gli algoritmi, l’AI aprono spazi di libertà anche nel lavoro, ma possono chiuderne altrettanti.

Come accennavo prima, il caso di Cambridge Analytica ci mette in guardia sull’uso improprio della profilazione per usi politici. Quindi, ritornando al tema: la tecnologia in sé è neutra – certo! – ma l’uomo no, e l’uso che ne può fare può andare oltre e generare nuove disuguaglianze e forme inedite di potere e controllo. Per questo difendere la libertà occorre difendere la privacy”.

Lei è nel gruppo di esperti MISE che sviluppa linee strategiche sul tema dell’AI: quali sono le priorità che bisogna darsi per governare questo tema sul fronte politico, economico e sociale?

“Quando si parla di Intelligenza Artificiale ai più corre alla mente HAL9000, il supercomputer di 2001: Odissea nello spazio, il capolavoro di Kubrick. In realtà si parla di AI, della scienza che si propone di sviluppare macchine intelligenti, ovvero capaci di ragionare, apprendere e comunicare con un linguaggio simile al nostro svolgendo compiti che richiederebbero l’intelligenza e la forza umana, ma con una distinguo: mancano di consapevolezza. L’AI offre la possibilità di automatizzare l’apprendimento continuo e attivare un processo di scoperta dei dati. Secondo alcune stime l’Intelligenza Artificiale potrebbe potenzialmente aumentare l’output economico globale di 13 trilioni di dollari entro il 2030, basti pensare alla guida autonoma, ma anche ai numerosi algoritmi che gestiscono le transazioni finanziare, gli scali ferroviari, ecc. Le questioni etiche su cui siamo chiamati a dare delle risposte anche in questo settore necessitano del contributo di filosofi, neuroscenziati ed esperti di robotica. Luciano Floridi è uno dei massimi esperti che sta lavorando nel gruppo nominato dalla Commissione Europea per stilare il codice etico da applicare all’AI con la raccomandazione che sostenga lo sviluppo umano, sociale e ambientale. A questa priorità il nostro Paese deve però affiancare quella dello sviluppo delle competenze. Nell’industria si stanno già modificando le competenze e le professionalità richieste dalle imprese. Per questo è importante che dentro la strategia nazionale per l’Artificial Intelligence ci sia una strategia che guardi alla formazione e alle nuove skill. L’AI può avere opportunità straordinarie per l’enorme potenziale diffusione nelle PMI, ma va accompagnata con una strategia che sostenga le transizioni produttive e le loro innovazioni. Il tessuto industriale italiano è composto per lo più da piccole e medie imprese che hanno scarsa capacità d’investimento e d’integrazione, anche se non mancano casi virtuosi. Come Paese, infatti, abbiamo purtroppo un virus che non ci porta a integrare tra loro le tante cose positive che facciamo, mentre gli altri Paesi hanno piani di miliardi di dollari. La scarsa capacità di far squadra a livello nazionale e continentale rischia di essere letale: bisogna fare presto, perché più passa il tempo e più il disallineamento delle professionalità digitali necessarie cresce con negative ripercussioni sull’occupazione”.

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