Greenwashing e Pinkwashing: quando i brand si tingono di rosa

Il greenwashing è quella strategia di marketing che porta a dare “una patina green” a un brand per migliorarne la percezione agli occhi del pubblico e l’appetibilità sul mercato, giocando sull’idea di ecosostenibilità di un prodotto o dell’azienda nel suo insieme. Ma il verde non è l’unico colore corteggiato da molte aziende globali: le tinte con cui un brand potrebbe essere interessato a “verniciarsi” sono tante, a seconda dell’immagine che si vuole dare di sé.

Come per il greenwashing, si è iniziato a parlare di “pinkwashing” molto prima dell’avvento dei social media: il termine è stato coniato nei primi anni Novanta dagli attivisti di Breast Cancer Action per identificare quelle aziende che dichiaravano di appoggiare la lotta contro il cancro al seno per raggiungere, invece, un qualche scopo commerciale. E se con il greenwashing a essere dominante è il verde e il concetto di sostenibilità in tutte le sue declinazioni, fin dai suoi albori il pinkwashing poteva contare su un simbolo potente e universalmente riconosciuto: il nastrino rosa, emblema globale della lotta contro il cancro al seno.

Si tratta di un concetto che, con il tempo, ha acquisito un’accezione più ampia: oggi il pinkwashing identifica tutte quelle strategie comunicative volte a investire un brand o un prodotto dei valori legati all’attivismo femminile e LGBT.

Ma torniamo al pinkwashing nella sua accezione più classica: una campagna di marketing che “passa” attraverso un dichiarato sostegno alla lotta contro il cancro al seno. In questo senso l’esempio di pinkwashing più famoso – anche per via delle polemiche che ha suscitato – è quello di Avon. Nel 2001 il colosso statunitense dei cosmetici ha lanciato “Kiss Goodbye to Breast Cancer” (Bacio d’addio al cancro al seno) una campagna di raccolta fondi attraverso la vendita di una nuova gamma di rossetti in sei differenti colori, i cui proventi sarebbero stati devoluti alla lotta contro il tumore al seno. Tuttavia, la formula di questi rossetti vedeva la presenza di parabeni, sostanze particolarmente utilizzate in cosmesi la cui presunta cancerogenicità è tuttora al centro di una controversia scientifica che coinvolge anche l’opinione pubblica.

Nonostante Avon abbia poi puntualizzato come negli Stati Uniti l’utilizzo dei parabeni in ambito cosmetico fosse legale, la campagna finì per essere velata dalle ombre: quello che salta all’occhio, in un situazione come questa, è più che altro l’intento commerciale, insieme a quella che può definirsi mercificazione del fiocchetto rosa, simbolo della lotta di milioni di donne in tutto il mondo contro la malattia.

Esattamente come nel greenwashing, anche il pinkwashing è una strategia che viene impiegata per permettere a un brand di raggiungere un obiettivo – sia esso commerciale o di riposizionamento strategico – sfruttando temi caldi su cui il pubblico di riferimento è particolarmente sensibile. Tuttavia, il campo di applicazione del pinkwashing è se possibile ancora più ampio di quello del greenwashing e coinvolge un pubblico estremamente vasto, con diversi universi valoriali in cui si riconoscono. Intercettarli con successo non è sempre semplice, e il disvelamento del meccanismo è sempre più frequente.

Lesson Learned: Per un brand commerciale ogni conversazione globale è appetibile: specialmente se a portarla avanti è parte del proprio target principale. 

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