Un 2019 da buttare, conservare o ricordare?

Una volta, a Roma, a Capodanno si buttavano le cose vecchie dal balcone. In alcune zone non volavano solo piatti, ma interi mobili. Muoversi in quelle zone era pericoloso, anche perché nella foga del cambiamento qualcuno iniziava a lanciare pezzi di casa già verso l’ora di cena. Oggi questa tradizione (per fortuna) è quasi del tutto sparita, e d’altro canto le strade della Capitale sono già così ingombre di rifiuti che non serve buttarne altri dai balconi. Ma è utile ricordare questa non proprio civilissima usanza perché ancora oggi, a Capodanno, ci si chiede cosa lasciare nell’anno vecchio e cosa invece portarsi – o cosa sperare di trovare – in quello nuovo“. Con queste parole Stefano Epifani, direttore di Tech Economy 2030, ha invitato i visionist, che si occupano di tecnologia ma che guardano a un 2020 sostenibile, a raccontare il cosa lasciare all’anno vecchio e cosa aspettarci dal nuovo.

Vogliamo buttare ciò che non aiuta la sostenibilità – afferma Gabriele Ruffattie guardare a cosa la può incoraggiare. Non mi voglio focalizzare sulla tecnologia in sé, ma su cosa sta alla sua base, sull’uomo che la produce e la governa. Ciò che vorrei buttare sono i muri, le barriere mentali, l’imprenditoria del tutto e subito e poi… i piccoli e, soprattutto, grandi monopoli, sicuramente anche qualche brevetto. Vorrei tenere, e incoraggiare, la collaborazione, la condivisione, la libertà d’uso e di sviluppo, la grande lezione del software libero. In questo momento scrivo da un piccolo paese di montagna dove ieri sera, ad un concerto natalizio, evento caratteristico di questi paesi, un coro di giovani ha intonato un classico della musica pop: Imagine di John Lennon. Nel canto ho ascoltati questi versi, che segnano ciò che mi piacerebbe portasse il nuovo anno: “Imagine no possessions, I wonder if you can. No need for greed or hunger, a brotherhood of man. Imagine all the people, sharing all the world. You may say that I’m a dreamer, but I’m not the only one. I hope someday you’ll join us, and the world will live as one.

Dello stesso parere Luciano Guglielmi: Parafrasando una famosa pubblicità si potrebbe dire: “Sostenibilità? What else?”. Ma cosa è la Sostenibilità? Quella vera con la “S” maiuscola. Ecco, sento già miriadi di risposte, molte banali, moltissime riferite solo al tema ambientale, molte con riferimento al fenomeno mediatico dell’anno (si mi riferisco proprio a lei: Greta!). Pochissime faranno riferimento al vero ampio spettro del concetto di Sostenibilità, quello presente nei vari “goal” dell’Agenda 2030 dell’ONU per esempio. Cosa lascerei nel 2019? L’ignoranza insostenibile circa la Sostenibilità. Cosa vorrei nel 2020? L’affermarsi di una cultura del concetto ampio e variegato di Sostenibilità, senza slogan propagandistici e senza opportunismi. Sostenibilità? What else?

Parlare di sostenibilità nel 2020 significa guardare anche al goal 3, che richiama il concetto di “salute e benessere per tutti”, e che Sergio Pillon commenta così: “La sopravvivenza in Italia si definisce un successo del Servizio Sanitario Nazionale, ma è un successo della famiglia italiana, che ci fa assumere centinaia di migliaia di badanti per tenere a casa i propri cari. Famiglia che merita di essere aiutata dalla tecnologia. E non chiamatela Telemedicina perché non esiste più la Telemedicina: esiste una tecnologia che consente di seguire un paziente anziano mentre dorme; esiste una tecnologia che mi fa sapere se gli hanno cambiato il pannolone, che mi dice se gli aprono la finestra nella stanza, che mi dice come sta prima di doverlo ricoverare, che mi consente di evitare di dover andare al suo medico curante a ritirare la ricetta, che mi consente di farlo visitare in casa sua… E le Regioni non permettono neppure ai privati di utilizzarle per guerre di interessi di lobby che vorrei potessero sparire nell’anno che verrà“.

Se guardiamo poi al digitale come strumento utile a migliorare in modo effettivo i processi, Gianluigi Zarantonello afferma di voler lasciare al 2019 “i finti processi digitalizzati alla fine dei quali bisogna stampare e firmare dei documenti, consumando la stessa carta con l’aggiunta di energia elettrica e altre risorse tecnologiche. I processi inefficienti che oltre ad essere costosi in sé richiedono di fare le cose più volte, dietro la facciata di una falsa velocità che in realtà non si concretizza in vero beneficio. I meccanismi organizzativi perversi e a silos che impediscono di progredire per gelosie e incomprensioni“. Questo per portarsi invece nel 2020 “una tecnologia che sia usata in modo intelligente per rendere il lavoro più sostenibile sia sul piano ambientale che su quello economico e umano, delegando alle macchine i compiti che per le persone non sono che perdite di tempo a basso valore e che sono soggetti ad errori. Un lavoro più corale nelle aziende guidate da una visione comune più diffusa, di cui la tecnologia sia il braccio armato consapevole. Una employee experience accuratamente seguita e progettata per allineare davvero le persone, sia sull’operatività che sulla visione più ampia“.

In tema di infrastrutture di comunicazione, che sono poi alla base dei goal 8, 9  e 11, Cristoforo Morandini, commentando il cosa lasciare, afferma che “negli ultimi anni sono stati fatti molti passi avanti nel delineare gli obiettivi da raggiungere e nel disegno di possibili linee di azione che riguardano sia i temi infrastrutturali che lo sviluppo dei servizi digitali. È però altrettanto evidente come si fatichi tuttora a scrollarsi di dosso alcuni problemi atavici, che si riassumono nella difficoltà di identificare delle chiare leadership e di assegnare dei ruoli univoci ai diversi possibili attori, così come nella definizione di orizzonti temporali, che scandiscano le tappe di un processo virtuoso. Per questi motivi, la prima cosa da portarsi nel 2020 è sicuramente un calendario, per dettare il ritmo delle azioni che ci porteranno verso gli obiettivi condivisi. La seconda è il coraggio delle decisioni per sciogliere alcuni nodi ancora irrisolti, che vanno dalla posizione sul modello competitivo e di stimolo per la realizzazione delle reti (unica rete o più reti in competizione), fino al tormentone sull’allineamento dei limiti elettromagnetici ai valori medi europei o il libero uso di alcune frequenze per agevolare la diffusione delle applicazioni per l’Intenet delle cose. Infine, ma non meno importante, è l’ambizione di arrivare primi nella creazione del miglior ambiente infrastrutturale per lo sviluppo di un ecosistema sostenibile. Entro il 2025, ma anche prima. Si può fare”.

E se si guarda a un modo di relazionarsi, comunicare, rapportarsi con altri più costruttivo? Simona Piacenti dice: “spero che tutti abbandonino le frasi fatte, quelle con troppe parole copiate, non capite né verificate; tutti i discorsi in cui uno vale uno; i “cugini” che fanno i copy o che “al sito ci penso io”; l’uso dei social fatto con lo stomaco (disturbato per altro) e non con la testa, ma soprattutto l’arroganza e l’ignoranza della disinformazione. Il primo del 2020 voglio invece trovare, perché gelosamente conservato, lo spunto dell’intelligenza, quella cortese, quella che supporta e non affonda. La gentilezza e la forza di chi si è schierato fuori dal coro, di chi ha difeso il nostro lavoro e ha creato cose belle, con le parole e con la tecnologia. E mi auguro che questa nuova parola “sostenibilità“ assuma lo spessore che si merita. Un acceleratore che se compreso e declinato può fare la differenza“.

Un vero e proprio appello al vecchio anno e a quello che verrà quello lanciato da Valentina Spotti: “Caro 2019, come tanti tuoi “colleghi” passati, anche tu ci hai lasciato tante lezioni importanti: alcune ce le siamo anche andate a cercare, eh. Altre invece ce le hai lanciate in fronte modello giavellotto e abbiamo potuto soltanto portarci a casa qualche insegnamento per il futuro, dopo aver cercato di gestire alla bell’e meglio la situazione. Per questo mi rivolgo al tuo successore, il 2020. Caro 2020, per i prossimi 12 mesi – e spero anche un po’ di più – vorrei: non vedere più campagne social lanciate con enorme sussiego dal brand di turno e poi lasciate a loro stesse non appena le cose prendono una piega strana. Al contrario, vorrei vedere una comunicazione sui social che è frutto non soltanto di una strategia di marketing, ma anche di una riflessione sul fatto che, dietro a ogni monitor, ci sono delle persone. E che, in quanto tali, deve essere loro garantita una discussione civile e soprattutto che serva a qualcosa. Non vorrei leggere più la frase “chi si occupa di gestire i social media ha bisogno di formazione”, usata come giustificazione di una crisi sui social, specialmente se c’è di mezzo una pubblica istituzione. In realtà vorrei non dover leggere più questa frase in nessun contesto: dopotutto siamo nel 2020 e dovremmo aver superato una volta per tutte la fase del “I social media? Ah, sì quelle cose che fa lo stagista…”. E sempre a proposito di istituzioni pubbliche: caro 2020, possiamo evitare di vedere certi contenuti pubblicati ai quattro social con la scusa di “sensibilizzare il pubblico”, quando invece non serve proprio a niente, né a raccontare un fatto né a “educare” l’opinione pubblica? Insomma, caro 2020, so che le mie aspettative su di te sono alte. Ma vorrei vedere, sopratutto sui social, una comunicazione più responsabile e una fruizione più consapevole. Insomma, dobbiamo impegnarci tutti: ma forse così possiamo farcela davvero. Ciao 2020, ti aspetto. Arriva presto!

Marco Caressa interviene per chiarire quanto possa essere dannoso sposare la tecnologia solo come moda del momento: “Nel suo saggio “On Bullshit” del 1986, il filosofo Harry G. Frankfurt affrontava ontologicamente il concetto di “stronzata”, dandone una fondamentale definizione: qualcosa che viene detto al solo scopo di persuadere qualcuno senza alcun interesse nei riguardi della verità e dei fatti. Per questo la riteneva più pericolosa della menzogna, perché chi mente conosce la verità e tenta di nasconderla in modo deliberato, mentre il “bullshitter” semplicemente la ignora e mira solo ad impressionare la sua audience. Oggi, soprattutto in ambito digital, “hype is the new bulllshit”. Si dice di un tema, di una tecnologia o di una metodologia che è “in hype” per dire che è sulla cresta dell’onda, che tira perché ha un target. In sé questo non è necessariamente un male (molta innovazione è hype per il solo fatto di essere – o proclamare di essere – novità). Lo diventa nel momento in cui seguiamo o diamo credito a cose, soluzioni o iniziative solo perché in hype e non perché utili o ipoteticamente risolutive di un qualche reale problema o esigenza. Quali sono i casi d’uso in cui la Blockchain è realmente necessaria, dirompente e distintiva? Quali quelli dove l’applicazione di Deep Learning fa la differenza? Possibile che tutto ciò che aveva una sua major version che poteva essere 1, 2 o settordici sia diventato 4.0? Che vuol dire veramente essere “agili”? E ci interessa per davvero “mettere al centro le persone”? E siamo pronti all’ennesimo change management che proverà a “cambiare tutto affinché tutto resti in realtà come prima”, come diceva il nipote del Principe di Salina? Andare solo dietro all’hype disperde le nostre risorse dirottandole  su iniziative improduttive, pregiudica l’efficacia del nostro impegno e abbassa paurosamente l’efficienza della creazione di valore. E senza efficienza non può esserci sostenibilità. Perché se non è detto che tutto ciò che è efficiente sia anche sostenibile, di sicuro tutto ciò che è sostenibile deve essere anche efficiente. Perciò vorrei lasciare al 2019 la maggior quota di digital hype possibile e auspico un 2020 più sostenibile, attraverso una più consapevole propensione da parte di tutti, me compreso, a non disinteressarsi alla verità e ai fatti. Che poi è un auspicio che mi sento di estendere anche ad altri ambiti. Perché limitarsi alle sole “stronzate digitali”?

E a proposito di “stronzate digitali”, Sonia Montegiove vorrebbe lasciare al 2019 “tutto l’openwashing: i finti open data che non servono a nessuno, se non agli amministratori di turno che li usano per le loro altisonanti dichiarazioni sul come siamo bravi come Pubblica Amministrazione; i finti progetti di migrazione a software libero dove si racconta di aver lasciato un software proprietario solo per aver installato sulle macchine il fratello libero, senza risparmi di soldi né utilità per gli utenti; il falso open government, dove di aperto, trasparente, disponibile c’è solo il desiderio di apparire disponibili alla partecipazione, quando ai cittadini, poco coinvolti e spesso diffidenti, del perdere tempo nel partecipare per non contare non interessa ormai più nulla”.

Di solitoconclude Stefano Epifanici concentriamo nel voler lasciare nell’anno vecchio le cose delle quali vorremmo liberarci. I mobili che getteremmo dal balcone della nostra vita. E trascuriamo il fatto che a volte, invece, ci sono cose che è bene lasciare nell’anno vecchio non perché siano cose delle quali liberarsi, ma perché lasciarle in quell’anno le riempie di senso, consente loro di trovare una collocazione nei ricordi, le conclude in maniera positiva. È per questo che non ho dubbi nel voler lasciare nel 2019 la nostra “vecchia” Tech Economy. Quella senza il 2030, per intenderci. La voglio lasciare nel 2019 perché è lì che compie il suo senso, che termina il suo ruolo, che trova una collocazione ed un significato che compiono in maniera ideale il suo destino. È facile voler lasciare all’anno vecchio quelle cose delle quali vorremmo liberarci. Più difficile è collocarvi quelle alle quali siamo magari ancora affezionati, ma che in quell’anno trovano la loro collocazione finale, il loro luogo ideale. Ma dobbiamo farlo, anche per evitare che gli anni passati, quelli dei ricordi, non diventino altro che depositi di brutti ricordi. Non ho esitazioni, quindi, a voler collocare la nostra Tech Economy, che ci ha accompagnato per tanti anni, nel 2019. Così che diventi un bel ricordo. E lasci spazio a nuove esperienze destinate a diventare anch’esse, un giorno, bei ricordi. È infatti grazie a lei – a ciò che ci ha portato, all’esperienza che ci ha fatto fare, alle cose che ci ha fatto apprendere – che nasce quella Tech economy 2030 che voglio portare nel 2020 e negli anni che verranno. E con essa vorrei trovare, anzi costruire insieme a quanti ci affiancheranno in parte del viaggio, un luogo nel quale discutere di come costruire quella sostenibilità digitale indispensabile per perseguire gli obiettivi di Agenda 2030. Il come, lo vedremo insieme”.

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