Smart Working per la sostenibilità (non solo ambientale)

Smart working, lavoro agile, telelavoro, lavoro a distanza. Negli ultimi anni, spesso si usano questi termini in associazione, alle volte erroneamente in alternativa, magari accostandoli al genere femminile e al superamento del gender gap, per avvalorare la causa del “lavoro a distanza” che migliora il work-life balance, o ancora per generici obiettivi di sostenibilità da un punto di vista ambientale.

Lo smart working consente senza dubbio una riduzione del traffico cittadino e delle emissioni di anidride carbonica: secondo i dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, infatti, in media, le persone percorrono circa 40 chilometri per recarsi al lavoro; dunque, se lavorassero almeno un giorno a settimana di lavoro da remoto, si potrebbe ottenere un risparmio in termini di emissioni per persona pari a 135 kg di anidride carbonica l’anno. Niente male, obiettivamente, parlando di sostenibilità ambientale. Qualche dubbio in più lo si ha quando si cita smart working a gender gap, soprattutto quando si limita questa pratica a politiche di conciliazione post maternità, visto che lo stesso Osservatorio del PoliIMI evidenzia come gli smart worker per ora sono in larga parte uomini.

Parlare di smart working o lavoro agile significa ragionare su una filosofia manageriale, su una progettualità complessa che determina un vero cambio di paradigma delle organizzazioni, capace di modificare processi e modalità di vivere il lavoro, poiché si basa sull’apertura dell’azienda o dell’ente pubblico alla flessibilità e all’autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti che le persone utilizzano, in cambio di una loro responsabilizzazione in base ai risultati. Significa, dunque, parlare di sostenibilità da molti punti di vista, di cui quello ambientale è solamente uno degli obiettivi.

Smart working non è telelavoro

I dati sullo smart working raccontano di un fenomeno in ascesa, che vanta una legge ad hoc (la 81/2017) e numeri interessanti: secondo l’Osservatorio PoliMI, gli smart worker, nel 2019, sono 570mila, in crescita del 20% rispetto all’anno precedente, mentre le grandi imprese che hanno avviato progetti di lavoro agile sono poco più della metà (58%, +2% rispetto al 2018), a cui vanno sommate un 7% di imprese che ha già attivato iniziative informali e un 5% che ha messo in cantiere un progetto nel 2020. Le iniziative messe a regime coinvolgono sempre più lavoratori, passando dal 32% nel 2018 al 48% nel 2019 e mostrando così una discreta maturità. Differente la situazione per le piccole e medie imprese: solamente il 12% ha progetti strutturati, anche se in crescita del 4% rispetto all’anno precedente, il 18% dichiara progetti informali (+2% rispetto al 2018), mentre il 51% sostiene che lo smart working non è di alcun interesse per l’azienda, il 13% in più del 2018.

In Pubblica Amministrazione, invece, nonostante siano raddoppiati i progetti strutturati rispetto al 2018, lo smart working è un fenomeno ancora poco diffuso e legato prevalentemente ad esigenze di conciliazione a scapito di altri benefici. I progetti, infatti, coinvolgono appena il 12% dei dipendenti.

Proprio la lentezza e le difficoltà nello sviluppo di tale fenomeno all’interno della PA, offre l’occasione di una considerazione importante: lo smart working è profondamente differente dal telelavoro, con il quale ogni tanto viene ancora confuso, e proprio questa differenza rende il lavoro agile molto complesso da introdurre all’interno di realtà dove prevalgono regole e procedure e gerarchie ben definite.

La principale differenza sta nel fatto che lo smart working si arricchisce del concetto di flessibilità della postazione del lavoratore, che potrà lavorare fuori o dentro l’impresa, senza necessariamente avere a disposizione una postazione fissa a casa e/o in ufficio e del tempo, poiché i giorni di lavoro non saranno precedentemente stabiliti, ma anche dei concetti di autonomia e collaborazione, con la piena assunzione delle responsabilità da parte dello smart worker rispetto ai risultati richiesti, e di innovazione e creatività rispetto ad un professionista che diventa sempre di più capace di lavorare in maniera autonoma, assecondando ed esaltando le proprie attitudini e competenze. Naturalmente l’utilizzo del lavoro agile è irrimediabilmente legato al processo di ripensamento degli strumenti e degli ambienti di lavoro personali o del datore di lavoro e, dunque, all’utilizzo delle tecnologie digitali abilitanti al cambiamento.

Smart working fa rima con sostenibilità

Il lavoro agile è indiscutibilmente uno strumento potente, che può portare notevoli benefici all’organizzazione che ne fa uso e prevede l’avvio di un processo di trasformazione digitale che investe azienda e lavoratori e che deve necessariamente muoversi da una riorganizzazione profonda dell’ente che decide di introdurre delle sperimentazioni in tal senso. Il lavoro agile modifica alcuni principi organizzativi e regole operative e contribuisce inevitabilmente al raggiungimento di alcuni obiettivi di sostenibilità non solo ambientale, ma anche economica e sociale, a beneficio di tutta la comunità.

Una riorganizzazione dei processi aziendali nell’ottica dell’introduzione dello smart working determina, infatti, una differente gestione delle assenze, una riduzione dei costi di gestione degli immobili, i cui ambienti dovranno necessariamente essere ripensati; inoltre, introduce sistemi di misurazione, valutazione e controllo delle performance individuali legati ad una differente organizzazione del lavoro per obiettivi. Ma lo smart working porta anche al ripensamento delle politiche di welfare aziendale, determinando benefici legati a:

  • riduzione dei tempi e dei costi di trasferimento del lavoratore, con tutto ciò che questo comporta anche, ma evidentemente non solo, in termini di sostenibilità ambientale;
  • miglioramento del work-life balance;
  • aumento della motivazione e della soddisfazione;
  • potenziamento delle capacità collaborative nel team di lavoro.

Le stesse imprese ammettono che il primo obiettivo dei progetti messi in campo è il miglioramento dell’equilibrio fra lavoro e vita privata dei lavoratori, indicato dal 78% del campione intervistato dall’Osservatorio Smart Working, seguito dalla capacità di attrarre e coinvolgere i talenti (59%) e dal desiderio di assicurare un maggiore benessere organizzativo (46%), mentre la mancanza di consapevolezza sui benefici dei progetti messi in campo si riduce in un anno dal 48% al 27%, segno di una crescente conoscenza e chiarezza degli effetti positivi del lavoro agile. E gli stessi lavoratori ammettono di essere più soddisfatti del proprio lavoro (76% rispetto al 55% degli altri lavoratori), più orgogliosi dei risultati dell’organizzazione in cui lavorano (71% rispetto al 62%) e desiderano restare più a lungo in azienda (71% rispetto al 56%).

Naturalmente tutto ciò passa dalla capacità di bilanciare l’uso di tecnologie digitali e altre modalità tradizionali di interazione, scegliendo di volta in volta metodo e strumenti digitali e non più efficaci e sostenibili rispetto agli obiettivi e alle attività.

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