“Chi vuole muovere il mondo prima muova se stesso”
(Socrate)
Come dice Marta Coccoluto nel suo articolo “Innovazione e viaggio, due guide al cambiamento (con coraggio e paura)“, in merito al libro del giornalista e scrittore Federico Pace Controvento, Storie e viaggi che cambiano la vita, “il viaggio va visto come unico sistema per cambiare e trasformarsi, il viaggio come chiave di volta di un’esistenza. Viaggiare non è solo superare confini geografici, ma linee di confine che la routine, l’incertezza del nuovo e la paura di fallire rendono invalicabili”. È mettere da parte la paura dell’ignoto per andare in direzione dei sogni da realizzare, degli obiettivi da raggiungere.
Appadurai ci insegna che, come si legge in Modernità in polvere, che “l’immaginazione ha frantumato la specificità dello spazio espressivo dell’arte, del mito e del rituale, e adesso è divenuta parte del lavoro mentale quotidiano della gente comune in molte società. È entrata nella logica della vita ordinaria, dalla quale era stata in buona misura estromessa con successo. Le persone comuni hanno iniziato a far uso della loro immaginazione nella pratica delle loro vite quotidiane. Più gente che mai considera normale immaginare la possibilità, per se stessi e per i propri figli, di vivere e lavorare in posti diversi da quelli in cui sono nati: questa è l’origine dei cresciuti tassi di emigrazione a tutti i livelli della vita sociale, nazionale e globale.”
Senza immaginazione non si potrebbero concepire vite diverse da quelle che siamo abituati a vivere, non ci sarebbe la possibilità di capire il mondo che ci circonda, ma soprattutto non esisterebbero culture globali da conoscere, da sperimentare, da acquisire per poi contestualizzarle nella propria realtà.
Il viaggio fa tornare trasformati, liberi da vecchi blocchi e aperti a nuovi pensieri, nuovi spazi (mentali e fisici) da esplorare. È nocivo fare resistenza al nuovo, è salutare abbandonare alcuni soliti riferimenti che rendono immobili. Il modo giusto di approcciarsi a un viaggio è quello di portare il bagaglio di esperienze acquisite, lasciare a casa le paure del cambiamento e tornare con nuove idee da sviluppare. Questo è arricchimento culturale.
Il viaggio è conoscenza, è insito nel Dna dell’uomo come stimolo primordiale alla ricerca, all’esplorazione, una sfida con se stessi che pone davanti al confronto con ciò che è diverso.
Eric J. Leed parla di “mente del viaggiatore” che va osservata nella sua interezza, da un punto di vista psicologico ma anche immaginario, riguardo il motivo per il quale l’uomo – dal mito di Gilgamesh all’era dei viaggi di esplorazione, ai giorni nostri – riconosce nel viaggio, che definisce il «motore stesso della storia umana» grazie al suo potere di plasmare e definire individui, società, confini geografici, politici o culturali, un processo di formazione sia individuale sia cultural-collettivo. Il viaggio è un’esperienza formativa fondamentale, è rottura, scoperta, crisi e riorganizzazione della mente, della coscienza, dell’io personale e professionale, è un passaggio che apre. Pensare la formazione come viaggio è utile per rendere esplicito quell’iter di avventura, la sua tensione, il suo carattere dialettico che deve permanere sempre aperto, soprattutto nella nostra epoca moderna. Il viaggio viene visto sotto numerosi aspetti, ma chiunque lo intraprende lo considera un’esperienza di vita che porta cambiamenti interiori importanti. Dopo un viaggio si è assaliti da una nuova ricchezza che, inevitabilmente, influirà sulla vita personale e professionale.
L’uomo ha l’incontrastata capacità di recepire e assimilare ciò che gli accade attorno e, raccogliendo i frutti delle proprie esperienze, è in grado di generare del nuovo. È sempre stato spinto dalla sua curiosità a intraprendere viaggi per scoprire: ce lo insegna Ulisse, che volle sapere cosa c’era oltre le Colonne d’Ercole, un limite considerato invalicabile. Sì, perché a livello antropologico il viaggio è creazione e rigenerazione della propria identità e socialità.
Come afferma Andrea Bocconi, psicoterapeuta docente di scrittura, nella sua opera Viaggiare e non partire, non ha importanza il posto verso cui si parte o il numero di viaggi, ma è importante essere un viaggiatore consapevole, cioè conscio di ciò che si vuole cercare e aperto alla scoperta e all’imprevisto. Si può viaggiare in tantissimi modi: c’è chi viaggia sempre e non parte mai, c’è chi parte e va lontano senza bisogno di viaggiare, c’è chi parte e viaggia e c’è chi non parte e non viaggia. Il viaggio è sicuramente aggregazione che favorisce la formazione di capitale sociale, il che a sua volta incoraggia l’efficacia del processo decisionale. Tornare da un viaggio formativo aggregante genererà sicuramente una rete di nuove idee che saranno sviluppate in nuovi prodotti o progetti. Torniamo un momento sul successo della Silicon Valley rispetto a un’altra rete di industrie high-tech, la Route 128 sorta nella Boston metropolitana. Negli anni Settanta le due aree concorrevano in misura pressoché uguale alla qualifica di fulcro della tecnologia americana. In seguito aziende di Silicon Valley come la Sun Microsystems, la Hewlett-Packard e la Silicon Graphics risultarono vincenti, mentre rivali bostoniane come la Digital Equipment Corporation, la Prime Computer e la Apollo Computer furono rilevate o uscirono di scena. Perché la gara high-tech premiò alcune industrie e non altre? Uno dei fattori determinanti del successo fu la facilità con cui idee, capitale e persone circolarono non solo all’interno delle singole aziende, ma tra un’azienda e l’altra. Di norma, i membri di organizzazioni rivali nutrono poca fiducia gli uni degli altri.
Ma nella Silicon Valley imprese diverse si mostrarono disposte a collaborare moltissimo. Abituati a cambiare spesso impiego, gli ingegneri elettronici che lavoravano per l’una o l’altra azienda scoprivano sovente di essere ex colleghi e per formazione attribuivano maggiore importanza alla cooperazione e alle realizzazioni tecniche che allo stipendio o alla fedeltà all’azienda. Le industrie della Silicon Valley furono pronte a sfruttare quegli importanti legami interpersonali trasversali. La cultura californiana, aperta e disinvolta, ebbe la meglio sulla cultura del New England, più riservata e più legata alla proprietà. A Boston il mancato scambio di idee e personale danneggiò la produttività e la mobilità: un difetto fatale nel campo dell’alta tecnologia, che si muove così in fretta.
Come diceva Henri Matisse, “sono fatto di tutto ciò che ho visto”. Cerchiamo dunque di vedere e visitare il più possibile.
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