Milano non si ferma. Andrà tutto bene. Ovviamente in forma di hashtag. Poi Milano si è fermata. E ci stiamo rendendo conto che non andrà tutto bene per niente. Le persone appollaiate sui balconi stanno smettendo di cantare, perché con 10.000 morti alle spalle e chissà quanti nel prossimo futuro, comincia ad esserci davvero poca voglia di manifestazioni di ottimismo. Stiamo capendo la portata di ciò che ci circonda. Stiamo capendo che – come e molto di più dell’11 settembre – il coronavirus rappresenterà uno spartiacque tra quello che c’era prima e quello che ci sarà dopo. Nessuno ancora sa davvero per quanto tempo le frontiere saranno chiuse. Nessuno sa se e quando torneremo a stringerci la mano senza essere scossi da un moto di timore. Il coronavirus sta mostrando al mondo – più dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici, che agiscono lenti e subdoli – con quanta forza la natura, se provocata, sappia rispondere ad un ospite in genere gradito, ma che deve stare attento a non diventare troppo ingombrante. La domanda, oggi è noto ai più, non è tanto “quando sarà tutto finito per uscire di casa tranquilli”, quanto “come fare per non portare il Paese al collasso economico, facendo uscire la gente di casa con un numero di morti sostenibile”.
Una versione più brutale e realistica del futuro si pone di fronte alla società: non andrà tutto bene. Nella migliore delle ipotesi tutto andrà meno peggio possibile.
Un unico nemico
Noi ci chiediamo quanto durerà la quarantena e con quanta fatica il nostro Paese troverà la forza di rialzarsi. In altri Paesi, più deboli del nostro e basati su un’economia informale, le persone si stanno chiedendo non come fare dopo la quarantena, ma come fare a sopravvivere alla quarantena e non morire di fame durante. In molti altri Paesi ci si chiede quanto poter protrarre la quarantena prima che si generino rivolte sociali che creino morti come o più del coronavirus. Sia pure con diversi livelli di intensità, tutto il mondo oggi si sta per la prima volta preoccupando di un unico, grande, invisibile nemico. E ciò ci riavvicina alla necessità di affrontare questi argomenti in maniera coordinata (non a caso la tutela della salute è contemplata dagli obiettivi di Agenda 2030), perchè il coronavirus ha dimostrato che non esistono problemi di questa portata che possano essere gestiti con approcci locali.
Non perdere l’umanità
Chiusa in casa e spaventata. Questa è oggi una larga parte dell’umanità. Ma è proprio in questo momento che l’umanità non deve perdere la sua umanità. E il concetto di umanità è inscindibilmente legato a quello dei diritti che la connotano. Quei diritti umani, appunto, che ci differenziano – o dovrebbero differenziarci – dal resto degli esseri viventi. Quei diritti per i quali si è combattuto. Quei diritti per i quali si è morti. Quei diritti che rappresentano l’essenza stessa della nostra società e che la connotano così profondamente da essere paradossalmente dati per scontati. Se non nella loro esistenza, nell’inconsapevolezza delle conseguenze della loro assenza.
Eppure quell’umanità, chiusa in casa e spaventata, è quella stessa umanità che – guidata dalla paura – la sua umanità rischia di perderla. Rischia di perderla quando, mossa dal terrore del contingente, non riflette sulle conseguenze delle sue azioni. Rischia di perderla quando, nel pensare alla sopravvivenza immediata, dimentica di considerare ciò che sarà domani. Rischia di perderla quando dimentica quanto è costato, quell’umanità, conquistarla. Rischia di perderla quando dimentica cosa abbia voluto dire costruire quel sistema di diritti che la definiscono e la rappresentano.
Non cedere alla paura
Ed è questo quello che stiamo facendo quando, mossi dal timore di un nemico invisibile ma devastante, dimentichiamo che il diritto alla salute è senz’altro prioritario, ma prioritario non vuol dire escludente degli altri diritti, che possono anche essere compressi, certo, ma non possono essere eliminati. Perchè la tutela del diritto alla salute non può passare dall’annichilimento di tutti gli altri diritti fondamentali dell’individuo. E se questa tendenza è perdonabile per chi è chiuso in casa e spaventato, lo è molto meno per coloro che – in un momento critico come questo – avrebbero il dovere e la responsabilità di riflettere e ragionare per trovare le soluzioni migliori. Non, banalmente, le più facili. Quelle soluzioni che la tecnologia permette, e che si basano sulla possibilità di gestire problemi come quello del contact tracing pur senza porre le fondamenta per uno Stato basato sulla sorveglianza di massa dei cittadini. I medici dovrebbero fare i medici, e non definire la privacy come una “fisima”. Gli ingegneri dovrebbero fare gli ingegneri, e non proporre installazioni obbligatorie di applicazioni invasive che conservino i dati degli utenti in server centrali. Non sta a medici ed ingegneri definire i requisiti di un’applicazione che tuteli la salute rispettando i diritti umani. Non sta soltanto a medici ed ingegneri definirne requisiti e caratteristiche. Sta a loro trovare la soluzione ad un problema che riguarda la salute oggi, ed i diritti dei cittadini domani e per sempre.
Un passo irreversibile
Perchè quello che (alcuni) medici ed ingegneri, sottraendosi ad un confronto costruttivo, fanno finta di non sapere, è che c’è una differenza sostanziale tra l’attuale limitazione dei movimenti dei cittadini ed il loro monitoraggio elettronico, seppure ingenuamente (ingenuamente?) proposto come temporaneo. Mentre la limitazione attuale dei movimenti, terminata questa fase, terminerà anche negli effetti (se non in quelli psicologici almeno in quelli materiali) il tracciamento elettronico, se fatto senza il rispetto dei diritti umani, produrrà diversi effetti che perdureranno passata l’emergenza:
- Stabilirà il principio per il quale i movimenti dei cittadini possono essere controllati in maniera generalizzata e puntuale (e quale sarà il livello di rischio che renderà lecito farlo?).
- Non potrà produrre garanzie che i dati di tracciamento e di contagio effettivamente spariscano dopo un determinato lasso di tempo (chiunque si occupi di sicurezza informatica sa benissimo che la sicurezza non è mai assoluta).
- Non da garanzie su cosa voglia dire “passata l’emergenza” (che sappiamo bene non passerà rapidamente: e se dopo quella sanitaria ci fosse quella sociale? Giustificherebbe il fatto di mantenere il tracciamento attivo?).
- Non potrà escludere che durante l’emergenza si generino discriminazioni tra “contagiati” e “sani” che vadano oltre la dimensione della salute pubblica.
- Genererà il rischio – se si seguiranno alcuni dei modelli dei quali si parla – di vere e proprie persecuzioni che ricorderanno la caccia all’untore di dantesca memoria (e non è una ipotesi: in alcune zone sta già succedendo).
Il vero problema è il “come”
Non si tratta di mettere in dubbio l’efficacia (comunque da dimostrare) di uno strumento di controllo come il contact tracing, ma di sviluppare un sistema di contact tracing che agisca nel rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo e che sia parte di una linea d’azione complessiva stabilita in un tavolo nel quale siano rappresentate tutte le competenze necessarie. Tavolo che non si limiti ad essere espressione di quella tecnocrazia medico-informatica che, se in questo momento ha una importanza fondamentale, non può escludere quegli altri ambiti di competenza che definiscono la struttura della nostra società: non è un caso se proprio l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che propone il contact tracing, raccomanda di agire per la tutela della salute pubblica, ma nel rispetto della privacy e dei diritti umani. Declinando quindi le tecnologie e le soluzioni che verranno scelte in un quadro orientato alla sostenibilità digitale. Perchè impostare il discorso come “perdi la privacy o muori” non solo è un modo scorretto, ma ipocrita di proporre una scelta inconsistente, perchè nessuno chiede di farla.
Non possiamo rischiare, barricandoci dietro l’ovvia necessità di salvare gli uomini, di perdere la nostra umanità. E porre questi elementi in contrasto non è necessità, ma ignoranza. O cattiva fede.
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