È dall’inizio del lockdown che si susseguono commenti, scontri, dibattiti e dissertazioni vari su come la pandemia cambierà noi stessi e il nostro modo di vivere.
Uno dei temi più sviscerati riguarda, indubbiamente, la digitalizzazione ed è stato affrontato da grandi esperti su testate specializzate nonché, come da italica tradizione, da chiunque altro e in ogni dove, dal baretto di paese in su, fino a riviste tipo Cavalli e segugi.
D’altronde, in un Paese che vanta un indice DESI come il nostro, è prevedibile che una così vasta platea di cittadini possa vantare competenze sufficienti per trattare di questi argomenti. Se ve lo steste chiedendo: sì, il sarcasmo è voluto.
Come è ovvio, nel marasma di opinioni infondate, si finisce per perdere di vista quelle serie e attendibili; se poi le istituzioni ci mettono del loro, diffondendo messaggi fuorvianti (per usare un eufemismo), la situazione può rapidamente degenerare. Manco a dirlo, è esattamente ciò che è capitato in Italia.
Da quando, all’inizio del lockdown, si è cominciato a trasferire quante più attività possibile su piattaforme digitali, è stato tutto un profetizzare l’incombenza di una vera “rivoluzione digitale”, attesa e anelata da anni perché foriera di innovazione. E qui cominciamo ad alzare la mano, come a scuola, e ad obiettare.
Prima obiezione: digitalizzare un processo (o una fase di esso) non equivale a renderlo innovativo
Certo, in alcuni casi lo si rende più veloce, interamente o in parte, ma una procedura farraginosa resta tale anche se sbrigata, totalmente o parzialmente, online o tramite le famigerate app.
Anzi, in molti casi si ricorre alla digitalizzazione di una procedura per manifesta incapacità nel concepirne e realizzarne una effettivamente innovativa, senza tenere in considerazione il fatto che, spesso, la migrazione a strumenti digitali porta con sé delle conseguenze, che vanno gestite.
L’esempio più calzante ci viene fornito dalla scuola. Dal momento in cui è diventato impossibile frequentare gli edifici scolastici, si è cominciato con la didattica a distanza, termine che (esattamente come smart working) è stato usato, nella maggior parte dei casi, a sproposito; innanzitutto perché la didattica è un processo che non si riduce alla lezione frontale, la quale ne costituisce solo una porzione. Passare dalla lezione in presenza alla lezione via webcam è assolutamente insufficiente per fornire una DAD efficace.
Inoltre, fare lezione in videoconferenza, via internet, richiede risorse di diverso genere: dispositivi hardware (computer o tablet, sia per l’insegnante che prepara la lezione, sia per i discenti, che devono poi seguirla e elaborare le nozioni recepite per apprenderle), infrastrutture di rete (di nuovo, per docenti e studenti), strumenti software (dalla piattaforma per le videolezioni ai programmi che docenti e studenti devono usare prima e dopo la videolezione) e, ultime ma non meno importanti, le competenze (perché i software sono belli e scintillanti, ma i contenuti li devono inserire ed elaborare insegnanti e alunni e se non sanno come fare, siamo punto e a capo).
Di fatto, l’impreparazione di una fetta molto importante di istituti riguardo una o più delle risorse sopra descritte, ha reso l’esperienza scolastica dei mesi trascorsi, a voler essere molto buoni, un esperimento (fallito) di didattica a distanza, che ha tagliato fuori dal processo di apprendimento tanti studenti.
Perché se “la scuola non si ferma” a prescindere dalla situazione, è ovvio e prevedibile che ci saranno delle conseguenze, e non tenerle in considerazione, scaricando tutto sui singoli istituti, significa lasciare indietro gli studenti più in difficoltà: se questa è innovazione, allora siamo messi molto male.
Seconda obiezione: la digitalizzazione di una procedura ha un impatto non soltanto sulla procedura stessa, ma anche sugli altri componenti del sistema in cui quella procedura viene attuata
Se non si considerano le ripercussioni e le esigenze della digitalizzazione, evitando di adattare quanto necessario nel resto del sistema, il risultato può (di fatto) vanificare ogni vantaggio di questa. Il contact tracing digitale (in salsa italiana) ci offre un fulgido esempio di ciò.
Sorvoliamo su tanti aspetti discutibili (per usare un eufemismo) della genesi dell’app “Immuni”: sulla fondatezza delle ragioni che hanno indotto a realizzarla, sulle modalità di selezione dell’ennesima task force di esperti, sulla scarsa trasparenza del processo decisionale, sulla mancanza di test adeguati prima della pubblicazione, sull’utilizzo di un backend controllato da aziende private che dettano le regole agli Stati, ecc. Non abbiamo spazio per affrontarli in questa sede e non voglio andare fuori tema.
Concentriamoci sul fatto che l’app, teoricamente, rende più veloce la procedura di individuazione dei contatti stretti di un individuo che risulti affetto da covid-19.
Nel momento in cui il medico inserisce nel sistema il codice dell’individuo infetto, chi (secondo l’app) è stato un suo contatto stretto nei 14 giorni precedenti riceve la notifica da Immuni e deve mettersi in isolamento in attesa di poter effettuare il tampone. Il problema è che, ad oggi, non esiste ancora alcuna garanzia sui tempi di effettuazione del tampone. Se poi si considera che (come segnalato anche dal Garante privacy) per limiti intrinseci alla tecnologia Bluetooth, c’è la possibilità che l’app segnali dei falsi positivi, ovvero che mandi la notifica a chi non è veramente un contatto stretto del contagiato, il rischio è di costringere all’isolamento persone che potrebbero anche non essere infette per un tempo indefinito. Più persone usano l’app, più c’è il rischio di indurre un nuovo lockdown in intere zone del Paese (a seconda delle percentuali di adozione dell’applicazione). Questa incertezza, ovviamente, fa sì che molti (comprensibilmente) decidano di non installare Immuni, rendendo così inutile tutto il tempo impiegato per metterla in campo.
Come per le reazioni chimiche, la tappa più lenta determina la velocità complessiva del sistema: si individuano i contatti stretti più velocemente, ma non si è in grado di selezionare, tra di essi, quelli effettivamente sono contagiati. Si ottiene, quindi, un sistema che non solo non è innovativo, ma che è potenzialmente dannoso.
Il fatto che in tutto ciò sia coinvolto il Ministero per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione potrebbe sembrare ironico, ma è indice di una carenza strutturale e diffusa della cultura dell’innovazione e rappresenta una zavorra per il Paese e per tutti noi cittadini.
In queste condizioni, preannunciare rivoluzioni digitali e incredibili spinte innovative è quantomeno miope.
Sicuramente possiamo dire che l’emergenza sanitaria abbia fatto venire al pettine, finalmente, moltissimi nodi che dovremo necessariamente sciogliere per poter innescare quel percorso verso un’innovazione digitale sostenibile di cui l’Italia ha disperatamente bisogno.
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