Mai come in questi ultimi mesi il futuro della democrazia si apre ad interrogativi e scenari difficilmente pronosticabili e, proprio per questo, particolarmente angoscianti.
Per quanto riguarda l’Italia abbiamo assistito soli pochi giorni fa all’ennesima spallata del capo politico (o spirituale?) dei 5 stelle che, durante un discorso tenuto niente meno che al Parlamento Europeo, ha dichiarato di non credere più in una forma di rappresentanza parlamentare ma “nella democrazia diretta fatta dai cittadini attraverso i referendum”. Questo appena pochi giorni dopo che Rousseau, la piattaforma informatica su cui gira “il sistema operativo” del movimento, ha mostrato importanti falle informatiche ed è stata messa in discussione da diverse personalità di spicco del movimento stesso.
Restando in Europa, Lukashenko, con una sorta di “cerimonia privata” si insedia in silenzio nel palazzo presidenziale della Bielorussia, nonostante le piazze piene di cittadini che, a oltre due mesi dalle elezioni, protestano per i presunti, ma quasi certi, brogli elettorali e pochi giorni dopo l’arresto della leader dell’opposizione Maria Kolesnikova, fermata durante un tentativo di fuga verso l’Ucraina.
Nel resto d’Europa vari partiti e movimenti populisti, pur con qualche significativa battuta d’arresto, continuano comunque a dettare le agende politiche nazionali, nonostante gli sforzi – esclusivamente economici, va detto – delle istituzioni europee di ricucire lo strappo con i propri cittadini che ad oggi per molti versi sembra insanabile.
Nel frattempo Boris Johnson spinge al limite (anche della decenza) lo scontro tra Regno Unito e Unione Europea per la Brexit, rimangiandosi parte degli accordi da lui stesso firmati in precedenza e rimettendo in discussione alcune questioni fondamentali per la risoluzione della trattativa, come ad esempio l’impegno a controllare il confine interno con Irlanda del Nord da cui transitano le merci made in UE.
Non sembra andare molto meglio dall’altra parte dell’oceano Atlantico, dove tra meno di due mesi si terranno le elezioni presidenziali, uno dei momenti elettorali probabilmente più importanti e attesi degli ultimi vent’anni a livello globale: a fare particolarmente paura sono da una parte i fantasmi della proliferazione di fake news e della propaganda sui social, che già hanno infestato la precedente tornata elettorale, dall’altra le dichiarazioni minacciose dell’attuale presidente Donald Trump e di parte del suo entourage di non riconoscere il verdetto in caso di sconfitta.
Queste sono solo alcune delle turbolenze che stanno attraversando l’occidente e che potrebbero a breve cambiare, se non ribaltare, gli scenari geopolitici internazionali.
Cosa fare dunque per mitigare questi fenomeni?
Proprio per questo è necessario rinforzare e mettere in sicurezza alcuni meccanismi democratici che siamo soliti dare per scontati, ma che in realtà potrebbero essere spazzati via in uno solo colpo.
Penso in particolare a tutto ciò che ruota attorno alla sfera dell’informazione politica e della propaganda elettorale che negli ultimi anni ha assistito a dei mutamenti a cui né le regole né gli elettori stessi sono riusciti a stare dietro.
I social network, Facebook e Twitter in particolare ma non solo, hanno aperto enormi autostrade per i “comunicatori politici” che hanno avuto la possibilità di far arrivare il loro messaggio direttamente al cittadino/elettore, senza necessità di alcuna intermediazione.
Disintermediazione e targetizzazione – le due caratteristiche principali che i canali social offrono a chi le sappia sfruttare – hanno radicalmente cambiato le modalità di interfaccia politico/elettore, dove oggi il primo ha la possibilità di confezionare e modellare il messaggio più adeguato per fare colpo ed attrarre nella propria sfera di influenza il secondo.
Vi sono due obiezioni che generalmente vengono sollevate quando si propone questo scenario: la prima è che la propaganda è sempre esistita e che quella sui social non sia poi molto diversa da quella di un secolo fa; la seconda è che, nonostante tutta la potenza di fuoco – ed economica – espressa da partiti, movimenti o singoli politici sui social, i risultati nell’indirizzare l’elettorato risultano comunque molto limitati.
Per quanto concerne il primo punto, è vero che la propaganda organizzata esiste da sempre, quantomeno da quando un primo sapiens decise di convincere altri suoi simili a fare quello che lui faceva e a seguirlo come leader, ma non si può non tenere conto della “potenza di fuoco” che i social network offrono in questo senso. Potenza che non sta semplicemente nella possibilità di poter arrivare a chiunque immediatamente e senza barriere, quanto nella possibilità di targettizzare il messaggio se non per il singolo utente, quantomeno per piccoli gruppi ben definibili e riconoscibili. In poche parole, a seconda delle caratteristiche di chi si vuole attrarre, si scelgono le immagini, le parole, il tono che su quella specifica tipologia di utente possono avere più effetto. Uno degli effetti perversi di questo meccanismo è stata la proliferazione di account social che arrivando a contare migliaia di follower si sono resi disponibili a fare da megafono non istituzionalizzato di questo o quel partito o di questo o quel esponente politico.
Per fare degli esempi più o meno realistici, è possibile incrociare account che, usando uno pseudonimo o un nome d’arte, si atteggiano a filosofi e utilizzando un vocabolario e uno stile totalmente distante da quello utilizzato dai populisti di destra estrema, ne diffondono i messaggi cercando di intercettare ed attrarre anche un pubblico diverso da quello che già, consapevolmente, segue gli account ufficiali di politici o movimenti di destra. Oppure si può incappare in account che, sempre dietro pseudonimo, divertono la propria numerosa fanbase acquisita negli anni con tweet ironici e dalla risata facile, salvo poi pubblicare con sempre maggior frequenza tra un tweet simpatico e l’altro dei contenuti politicamente orientati a sinistra, attraendo i follower nella propria sfera di influenza.
Account come quelli sopra descritti potrebbero anche essere gestiti non da un utente, ma da un team di persone esperte in comunicazione, con l’obiettivo non esplicitato di orientare gli utenti di un social verso una determinata idea politica o, addirittura, verso uno specifico partito o politico.
Le potenzialità offerte dalla propaganda sui social network sono imparagonabili per efficacia e quantità a quelle a cui siamo tradizionalmente abituati: è vero che anche attraverso la pubblicazione di un romanzo harmony o di un film di azione si è fatta propaganda nel secolo scorso (Rambo, tanto per citarne uno), ma con costi e capacità di penetrazione assolutamente fuori scala rispetto alle possibilità offerte dai mezzi oggi disponibili.
Per quanto riguarda invece l’obiezione sulla scarsa efficacia della propaganda online, il discorso è più complesso e soprattutto legato non tanto al presente, quanto al domani prossimo. Delle bolle social sappiamo già tutto, inutile parlarne ancora, tuttavia chiunque abbia frequentato Twitter durante la campagna elettorale per il referendum sul taglio dei parlamentari non può non aver constatato come, al di là della propria bolla di appartenenza, il “partito del no” fosse attivissimo e arrembante con le sue migliaia di hashtag #iovotono. Guardando solo il feed di twitter si sarebbe potuto pensare che nonostante tutti i maggiori partiti e leader politici si fossero spesi per il “sì”, la cavalcata del “no” li avrebbe comunque travolti. E invece… il no raggiunge a malapena il 30%.
Quindi l’influenza delle campagne sui social (o in questo caso quantomeno su Twitter) è pressoché nulla?
No. O meglio, se sono ancora poco incisive oggi, non significa che non saranno al contrario determinanti nei prossimi anni: secondo il Rapporto sulla Comunicazione pubblicato da Censis a febbraio, già oggi il 31,4% degli italiani, quindi più di un terzo della popolazione, utilizza Facebook come fonte primaria di informazione e il dato, temo, è destinato a crescere.
In sintesi, la creazione del consenso utilizza strategie comunicative sempre più sofisticate, adattabili al singolo e specifico contesto che si vuole influenzare, in grado di propagarsi in maniera del tutto opaca, moltiplicando a dismisura il messaggio, ma nascondendo il messaggero. Mutuando la terminologia utilizzata in ambito di antiriciclaggio, diventa sempre più complicato identificare chi sia il “beneficiario effettivo” di un determinato messaggio.
Cosa fare dunque per mantenere dritto il timone delle nostre democrazie, anche in considerazione degli obiettivi che tutti i Governi si sono prefissati a livello globale per il prossimo decennio?
Una domanda questa che potrebbe essere anche formulata in questo modo: come promuovere uno degli obiettivi del millennio fondamentale per il raggiungimento di tutti gli altri, ovvero il 16.6 che richiede a tutti i Paesi delle Nazioni Unite di sviluppare a tutti i livelli istituzioni efficaci, responsabili e trasparenti?
Perché è evidente, istituzioni aperte ed efficienti non possono coesistere con un sistema democratico influenzabile e manipolabile attraverso strumenti di propaganda del tutto opachi.
Proprio in questi giorni la Commissione Europea ha chiuso la consultazione pubblica sul nuovo “European Democracy Action Plan”, un’ambiziosa strategia che ha l’obiettivo di limitare le interferenze esterne e la manipolazione delle elezioni, di garantire la libertà e il pluralismo dei media e di rafforzare la lotta alla disinformazione.
La Vicepresidente della Commissione europea per i valori e la trasparenza Věra Jourová è stata molto esplicita nel presentare la consultazione pubblica sul nuovo Piano europeo, dichiarando che una democrazia ben funzionante deve offrire a ogni cittadino lo spazio per avere le proprie opinioni e un canale attraverso il quale poterle esprimere senza timori di interferenze esterne destabilizzanti per il processo democratico.
Il nuovo piano per la democrazia europea ha l’ambizione, temo smodata, di rendere trasparenti le campagne di comunicazione politica, in particolare sui social network, richiedendo ad esempio ai partiti e ai soggetti che prendono parte attivamente alle campagne elettorali di rendicontare tutte le attività direttamente svolte o finanziate con l’obiettivo di influenzare il voto dei cittadini. Ciò significa che se ad esempio un partito o un candidato decidessero di appoggiarsi a un “influencer” politico per far propagare il proprio messaggio su Twitter, Facebook o Instagram, il loro rapporto dovrebbe obbligatoriamente essere reso palese.
Difficile immaginarsi come nel concreto tale obiettivo possa essere raggiunto, ma il fatto che le istituzioni europee abbiano, seppur tardivamente, deciso di affrontare il problema, la dice lunga sull’importanza che la propaganda online ha assunto negli ultimi anni.
Sintetizzando all’osso quanto descritto da Nicholas McFarlane nel suo divertente saggio illustrato “Spinfluence: The Hardcore Propaganda Manual for Controlling the Masses” quando la fonte del messaggio è ovvia – come accade nella pubblicità commerciale ad esempio – possiamo definire l’attività di diffusione “white propaganda”. L’elettore o il consumatore sa da dove arriva il messaggio ed è nella condizione di cercare altre informazioni se lo desidera. Quando invece la fonte è mascherata, usiamo il termine “black propaganda”. Per sviare e confondere ulteriormente il “l’avversario”, il messaggio può essere fatto apparire come proveniente dalla stessa sfera politica di appartenenza del soggetto bersaglio della propaganda, attraverso la costruzione di opache strategie comunicative.
Una sorta di remake di “Inception” in chiave elettorale, dove è l’idea politica che viene innestata e fatta germogliare nel subconscio dell’utente elettore.
Non credo onestamente che basterà un piano d’azione della Commissione Europea ad arginare la “propaganda nera” che dilaga particolarmente nei social network, ma di certo non è più tempo di stare a osservarne l’evoluzione passivamente. Anche solo cominciare a parlarne diffusamente è un piccolo passo avanti per la salvaguardia della nostra democrazia.
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