Da centri urbani a città “smart”: come trasformare la prospettiva di città sostenibili e resilienti in realtà?

Noi tutti vorremmo vivere in un mondo, più unito, più intelligente e rispettoso dell’ambiente, che si avvalga di tutto ciò che la tecnologia moderna ha da offrire: risorse della scuola disponibili da remoto per gli studenti, servizi sanitari più consoni per i pensionati; piste ciclabili sicure e capillari per i pendolari e una banda larga veloce e diffusa per i lavoratori a domicilio.

Ma in un momento come quello attuale, caratterizzato da pressioni senza precedenti sia sulle finanze pubbliche sia sui paesaggi urbani, come possono raggiungere le nostre città una tale “intelligenza” per i propri cittadini? Come devono essere costituiti i partenariati tra le autorità locali e il settore privato per lavorare in modo efficace, o in altri termini in che modo le istituzioni devono diventare esse stesse “intelligenti” al fine di rendere le città più smart per tutti? E queste trasformazioni possono essere fatte nel breve periodo con piccoli spostamenti incrementali, o possono essere realizzati solo attraverso una visione strategica a lungo termine?

Una winter school per liberare le energie urbane

A queste ed a molte altre domande si tenterà di rispondere nel corso della Winter School organizzata dall’Università di Cagliari in collaborazione con una importante schiera di partner, tra i quali la Fondazione Sardegna, ESRI Italia ed il Digital Transformation Institute. L’iniziativa, dal titolo “International Smart Cities School: imagination, planning, governance e tools”, si terrà – vista l’emergenza in corso – totalmente on-line a partire da venerdì 20 novembre ed avrà come tema portante di questa prima edizione “Energie della e per la città”. In 34 ore di webinar ad accesso gratuito e 24 ore di coworking lab numerosi esperti si avvicenderanno per fornire le loro visioni di città: da Stefano Epifani, presidente del Digital Transformation Institute, che aprirà il ciclo dei webinar a Roberto Lippi di UN Habitat; da Fabrizio Pilo dell’Università di Cagliari a Massimo Mandarini del Politecnico di Milano; da Raffaele Gareri della Citta Metropolitana di Roma a Marco Moretti di A2A. Ma quali sono le logiche che hanno definito il programma?

Smart city: brand o paradigma?

La risposta ai quesiti che saranno affrontati nella Scuola non è univoca e ha trovato sponda in vari paradigmi di riferimento: a partire dalla sostenibilità, passando dalla resilienza e arrivando alla smartness. Proprio quest’ultimo risente, più degli altri, di una indeterminatezza semantica. Senza pretesa di esaustività si nota infatti come il concetto di “Smart City” sia stata affiancato alternativamente a quello di ‘knowledge’, ‘digital’, ‘cyber’ o ‘eco’ city, andando a rappresentare un concetto aperto ad una varietà di interpretazioni legate agli obiettivi definiti dai diversi pianificatori o decisori di volta in volta coinvolti.

Oltretutto la prospettiva della “Smart City” contiene in sé molte visioni, spesso concorrenti, che si declinano nelle diverse articolazioni, rintracciabili nella vasta letteratura (anche non scientifica) che la accompagna, come smart mobility, energy, governance, living, environment, health, e-partecipation, e-government, social innovation e molto altro ancora.

L’iperbole della Smart City nell’agenda politica

Nonostante questa indeterminatezza e la convinzione di alcuni studiosi che il concetto stesso di Samrt City non rappresenti altro che una nuova veste per idee vecchie (il ruolo dell’innovazione come motore di crescita), o piuttosto una modalità per vendere meglio soluzioni e prodotti tecnologici (tanto che qualcuno parla di Corporate Smart City), l’idea della Smart City – magari in una sua più amplia accezione legata ai “territori” intelligenti – guadagna consenso nell’agenda politica europea, nazionale ed industriale, mobilitando ingenti capitali ed investimenti, e si avvia a diventare una delle questioni centrali attorno cui si stanno articolando e si articoleranno gli sforzi di pianificazione non solo delle principali città italiane ed europee, ma anche di molte altre forme di aggregazione territoriale.

Questa tendenza si sta già concretizzando in una moltitudine di iniziative volte a trasformare la vita di milioni di persone, a partire da progetti semplici che migliorano l’accesso digitale ai servizi pubblici (come ad esempio l’uso di telefoni cellulari o smart phone per pagare per una vasta gamma di beni e servizi), fino a infrastrutture innovative per riciclare le acque reflue o per il riscaldamento.

Tuttavia, prima ancora di essere un insieme di soluzioni tecnologiche, la smart city è sia il prodotto di bisogni sociali emergenti su scala urbana, sia la concreta manifestazione della necessità di una nuova generazione di politiche per l’innovazione riguardanti i diversi livelli delle nostre amministrazioni.

L’idea di fondo è che la grande capacità di connessione ed elaborazione di informazione offerta dalle tecnologie ICT possa contribuire a costruire un modello di collettività molto più cooperativa che in passato, e per questo più “abile”, cioè in grado di perseguire soluzioni più efficienti, più competitive e più inclusive.

Questa idea sottintende però una modifica radicale di abitudini spesso consolidate, la rimozione delle barriere tra ruoli e responsabilità – la “mentalità silos” – che porta le persone a dire: “io sono il responsabile del settore dei trasporti e mio occupo quindi solo di mezzi di trasporto”. La sfida è di coniugare in un unico modello urbano tutela dell’ambiente, efficienza energetica e sostenibilità economica, con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita delle persone che vi abitano e creare nuovi servizi per i cittadini e per le Pubbliche Amministrazioni, il tutto riflettendo le diverse esigenze della popolazione senza imporre una struttura generale. Bisogna fare in modo che tutti i gruppi sociali che costituiscono i centri urbani siano conosciuti nei loro modelli comportamentali poiché questi non confermano sempre gli stereotipi.

È importante che le città siano intelligenti non di per sé ma per le persone che le vivono.

Una possibile strada per uscire da una definizione omologante

Per poter rendere tale idea realmente praticabile, è essenziale che i diversi attori, governo nazionale e locale, cittadini e imprese, concordino sulla definizione di smart city che loro ambiscono a realizzare, concordino cioè sulla definizione di una strategia di medio termine capace di mettere a sistema i diversi fattori produttivi di cui la città dispone, per aumentare la crescita, garantendo nel contempo la felicità e il benessere dei cittadini. Una tale prospettiva porta al centro dell’attenzione i diversi tentativi di misurare la smartness, che si sostanziano in ranking di città caratterizzati però tutti dal voler individuare un unico valore di riferimento.

Appare però evidente come sia non solo riduttivo ma concettualmente errato riferirsi ad un valore ottimale di smartness ideale, unico e statico a cui tutte le città debbano tendere. Bisogna altresì individuare per ciascuna città un valore specifico, legato alle proprie dotazioni. Bisogna passare dal misurarsi con il raggiungimento di un obiettivo omogeneo ed omologante a cui tendere ad un valore relativo, diverso per le singole realtà e che sia legato all’utilizzo efficiente delle proprie risorse. La relatività del concetto di smartness sposta la prospettiva di studio ed analisi, in particolare, sulla componente soggettiva/percettiva proprio per tenere conto del fatto che lo stesso indicatore ha valore e peso diverso in contesti diversi a causa della memoria storica (il genius loci, il milieu) di quel contesto e dell’identità dei suoi abitanti. Da un punto di vista meramente metodologico si evidenzia così, nella costruzione statistica del concetto di smartness, la necessità di utilizzare tecniche (interviste cati e papi e weighting techniques) capaci di catturare questa dimensione e di riferirsi a variabili che riescano a relativizzare opportunamente gli indicatori scelti.

Da “residenti” ad “utenti” della città

In questo senso diventa fondamentale riferirsi ai city users piuttosto che ai residenti, essendo molte città, sistemi che vivono quotidianamente importanti stress e congestionamenti dovuti al pendolarismo. Così impostata, quella che potrebbe essere ora chiamata la relative smartness è un valore fortemente legato alla dimensione temporale, perché nel momento in cui un dato contesto raggiungerà o si avvicinerà al proprio valore ottimale esso, in quanto massimamente efficiente (o quasi), diventerà più attrattivo andando a catturare nuove quote delle diverse forme di capitale (sociale, fisico, etc.).

A causa però dell’inerzia (più o meno marcata) insita in ogni amministrazione, ci sarà un gap tra l’acquisizione di questi nuovi input e la capacità della stessa amministrazione nel gestirli in modo efficiente. Questa dinamica fa si che la città si allontani dalla frontiera di efficienza (o valore ottimale di relative smartness) precedentemente individuata, o meglio, date le nuove caratteristiche, si va a definire una nuova frontiera che comporta un nuovo percorso di adattamento in termini di efficienza rispetto alle nuove condizioni (in questo senso una tale dinamica richiama sia la teoria della dimensione ottima della città che quella dei cicli economici). Da quanto detto risulta che tanto minore sarà il tempo che un dato contesto impiegherà per adattarsi alle nuove condizioni tanto più sarà efficiente nell’utilizzare le proprie risorse.

Oltre gli slogan, verso un nuovo modello di smartness

Ecco quindi emergere il carattere dinamico della smartness che potrà quindi essere individuata nel tempo in cui una città impiega a raggiungere la sua frontiera efficiente nei diversi cicli. Questo approccio, fattibile nella misura in cui siano disponibili dati di diversi anni, consentirà ancora di costruire ranking di città che incorporeranno però le specificità dei contesti: tanto minore sarà l’intervallo tra due picchi di efficienza tanto più quel dato contesto urbano sarà smart.

Le problematiche sopra descritte non esauriscono evidentemente la complessità dello sviluppo urbano in chiave smart e sostenibile ma ne costituiscono fondamento, poiché fino ad oggi le strategie, laddove dichiarate, si sono ridotte a semplici slogan non verificati o verificabili sulla base di obiettivi concreti e misurabili con conseguente utilizzo non efficiente delle risorse, cioè non legato al raggiungimento di una vision condivisa. Il pericolo è quindi quello di creare “non luoghi”, di augeriana memoria, privi di identità, piuttosto che città fondate sulle specificità dei propri contesti ambientali e sull’identità dei propri abitanti che ne costituiscono altresì il vero motore di sviluppo.

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Laurea in Ingegneria, Master in Economia e Istituzioni, PhD in Tecnica Urbanistica, è stato coordinatore dell’osservatorio Smart Cities - Società Geografica Italiana e Roma Capitale e professore aggregato di Politica Economica. Attualmente è Research Fellow presso la Fondazione Economia Tor Vergata, presso il CIREM dell’Università degli studi di Cagliari e presso il Digital Transformation Institute e professore aggregato di Geografia Economia presso l’Università di Cagliari dove tiene il corso “Smart Cities: politiche e prassi”. Ha recentemente istituito il gruppo di ricerca interdisciplinare “Tomorrow’s Cities Lab”, ed è direttore scientifico della “International Smart Cities School”. La sua attività di ricerca si concentra in particolare sul ruolo dell’innovazione per lo sviluppo economico-territoriale. Tale tematica è stato esplorata partecipando a diversi gruppi di ricerca nazionali e internazionali, sviluppando progetti in ambito nazionale ed europeo, nonché attraverso un’attività di consulenza per la pubblica amministrazione con particolare riferimento alla pianificazione strategica (attualmente è coordinatore del Piano Strategico della Città Metropolitana di Cagliari). E’ autore di più di 80 pubblicazioni in ambito sia nazionale che internazionale.

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